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Larry Joe Bird, Il contadino di French Lick

Larry Joe Bird nasce il 7 dicembre del 1956 a West Baden Springs, larry-bird-kidnella contea di Orange in Indiana. Quarto di sei fratelli,
uno dei quali, Mark, era la stella della squadra di basket della Springs Valley High School, inizia a giocare a basket fin da
piccolo, seguendo i fratelli, che spesso non avrebbero voluto averlo tra i piedi perché troppo piccolo. Larry, come tutti i
ragazzi di French Lick, piccolo paese dove cresce, ha una passione immensa per la palla a spicchi, che lo porta a recarsi al
campetto, anche quando piove, con l’obiettivo di diventare, nonostante la giovane età, più forte di suo fraello Mark. E’
proprio su quel campetto malandato che Bird, per sua stessa ammissione, trova l’essenza del gioco e si accorge di essere
migliorato enormemente, vedendo le difficoltà dei ragazzi più grandi a fare delle cose che a lui venivano naturali.

Una volta raggiunta la giusta età si iscrive alla Springs Valley High School, dove ben presto diventa la stella della squadra di basket, facendo registrare delle medie incredibili e, inevitabilmente, facendosi notare da tutti gli scout dei vari collage. Ha solo da scegliere, ma le idee di Bird sono ben chiare; e sono le idee di qualsiasi ragazzo nato in Indiana: giocare e studiare alla Indiana University di Bloomington e giocare per gli Hoosiers. Larry, però, a Bloomington dura solo ventiquattro giorni, poi torna a French Lick in autostop. Quell’ambiente non faceva per lui. Il camp della Indiana University, infatti, è enorme, troppo per un ragazzo che nasce, e cresce, in un paese piccolo. Con l’anno accademico ormai perso, Bird trova occupazione come netturbino. Sapendolo libero, gli scout, che non erano riusciti a convincerlo l’anno precedente, iniziano, in maniera
ossessiva, a corteggiarlo. Uno in particolare, però, si distingue: Hodges. Hodges è il capo scout, e allenatore in seconda,
dell’Indiana State University, e va ogni giorno a casa Bird, o da qualche parente, per parlare con Larry o farlo convincere ad unirsi ai Sycamores. Alla fine, preso per sfinimento, Larry decide di parlargli e si fa convincere a trasferirsi a Terre Haute. Nell’estate di quell’anno, Larry subisce un duro colpo: suo padre, Joe, si toglie la vita, per motivi che non sono mai stati chiari. Larry, però, è uno psicologicamente forte ed assorbisce il colpo, trovando in esso la forza di andare avanti. Nel nuovo college si trova benissimo e, anche se non può giocare in partite ufficiali per un anno, riesce a trovare una buona intesa anche con i compagni di squadra. Al primo anno, effettivo, Bird diventa subito fondamentale per la sua squadra, facendo vedere tutte le sue qualità, senza però vincere niente di rilevante, ma essendo inserito nel primo quintento All-
American collegiale. Alla fine di quella stagione ,1977-1978, avendo già giocato per l’Indiana University, può rendersi eleggibile al Draft NBA e viene scelto dai Boston Celtics, che, dopo essere arrivati larry-bird-magic-johnson-final-NCAAall’ultimo posto la stagione precedenteindividuano in lui la persona giusta da cui ripartite. Bird, però, decide di non trasferirsi a Boston prima di essersi laureato e resta un altro anno ai Sycamores. L’anno successivo si prospetta fallimentare. Tutti i migliori, infatti, lasciano gli studi e l’head coach, Bob King, ha un attacco di cuore, che gli impedisce di guidare la squadra l’anno successivo, lasciando tutto
nelle mani di Hodges, che si ritrova a capo di una squadra formata da giocatori mediocri e un All-American. La forza di volontà, che Larry conferisce alla squadra, però, è sufficiente a trasformare una squadra mediocre in una squadra imbattibile. Bird viaggia a oltre 30 punti e 20 rimbalzi di media e la squadra arriva alle final-four NCAA senza aver mai perso una partita. In semifinale i Sycamores si sbarazzano dei DePaul Demons, grazie a una prova incredibile di Bird, che chiude con un incredibile 16 su 19 dal campo. In finale, però, Bird incontra una persona che entrerà nella sua vita per non uscirci più: Eavin Johnson, detto Magic. La finale, che ancora oggi è la finale NCAA più vista della storia, viene vinta dagli Spartans di Magic Johnson. Quel giorno è ricordato soprattutto per la nascita di una delle rivalità sportive più grandi di sempre: Larry
Bird, che diventerà il leader silenzioso -ma non più di tanto- dei Celtics, contro Magic Johnson, l’estroso leader dei Lakers.

Nelle sue prime partite con i Celtics non riesce, tuttavia, a bird-draftedconquistarsi i favori dell’esigente pubblico di Boston, che,
tuttavia, deve ricredersi dopo poche partite, visto che Bird diventa il perno della squadra, che con lui riesce ad avere il
miglior miglioramento fatto registrare in un anno da una franchigia NBA. A fine stagione arriva l’invitabile premio di Rookie
of The Year. L’anno successivo Larry conduce i suoi alla finale NBA, battendo in finale di Conference i Seventysixers. In
finale ad attenderli ci sono gli Houston Rockets di Moses Malone, che però devono arrendersi al gioco di squadra dei Celtics. E’ il primo anello per Larry Bird, l’inizio di una delle dinastie più vincenti, o LARRY BIRDquanto meno spettacolari, della storia. L’anno successivo arriva la prima chiamata all’All-Star Game, dove si presenta subito alla grande, diventando l’MVP della partita. L’anno successivo, benché la squadra giochi alla grande, non riesce ad arrivare in finale, cosa che farà nella stagione successiva, quella 1983-1984, quando Bird vince il suo primo titolo di MVP della stagione regolare. Gli avversari sono i Los Angeles Lakers di Magic Johnson. La rivalità tra i due è fortissima, così come il rispetto reciproco che hanno uno nei confronti dell’altro. Le cose, però, non si mettono bene per Boston, che va sotto 3-0 nella serie, perdendo gara 3
con il risultato di 104-137. La cosa non va giù a Bird, che è uno che sul parquet diventa un guerriero, e nel post partita apostrofa come ‘femminucce’ (‘sissies’) i suoi compagni. Queste sue dichiarazioni non fanno altro che fomentare i suoi, che in gara 4 scendono in campo come se dovessero andare in guerra e, al termine di una partita con molto agonismo, in cui Bird ebbe diversi ‘scambi di opinione’ con Kareem Abdul-Jabbar, i Celtics tornano in partita e nelle successive partite portano a casa il titolo e Bird viene eletto MVP delle finali. La memoria di Bird lo porta a dedicare questo titolo al suo college, visto che è stato ottenuto contro quel Magic Johnson che mise fine al sogno dei Sycamores. L’anno successivo
viene eletto nuovamente MVP della stagione regolare e i Celtics arrivano ancora in finale, ancora contro i Lakers di Johnson.
Quell’anno, però, avviene un episodio molto singlorare tra lui e Dr. J, Julios Erving: i due vennero espulsi per rissa, con
Erving che aveva perso la pazienza di sentirsi ricordare da Bird che lui avesse segnato soltanto 6 punti, mentre lui 42 ed era
soltanto il terzo quarto. Questa volta, però, Bird non riesce a trascinare i suoi in finale, persa poi per 4-2. Nella stagione successiva, 1985-1986, viene chiamato a partecipare alla gara dei tiri da 3 punti, che si svolge durante l’All-Star Game. All’arrivo negli spogliatoi si guardò intorno, e disse: “Tranquilli ragazzi, sto soltanto bird-win-3pointdando un’occhiata per vedere chi arriverà secondo”. Inutile dire che vinse quella gara. Quell’anno vinse anche il terzo titolo, consecutivo, di MVP, raggiungendo così il record di Bill Russel e Wilt Chamberlain. I Celtics arrivarono anche quell’anno in finale e vinsero, senza tanti problemi, contro gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon. Terzo anello, dunque per Bird, che viene eletto, per la seconda volta, MVP delle finali. L’anno successivo Bird vince ancora la gara del tiro da 3 all’All-Star Game e raggiunge, ancora la finale. Questa volta, però, è bird-stachecostretto a giocare la serie finale da infortunato, visto che in finale di Conference subisce un infortunio al gomito, che lo limita. I Lakers hanno la meglio per 4-2, sfilando l’anello dal dito di Bird e compagni. E’ solo l’inizio della fine di un ciclo unico. L’anno successivo, infatti, centra i playoff, ma non la finale e vince ancora la gara dei 3 punti all’All-Star Game. I problemi fisici di Bird iniziano a farsi sentire, dopo anni ed anni di tuffi al limite della follia e un’intensità al di là di ogni logica umana. Bird-DreamTeamRiesce comunque a tener vivo l’orgoglio di Boston fino al 1992. Anno in cui viene selezionato per far parte del Dream Team, che affronta, e stra-vince, Giochi Americani ed i Giochi Olimpici di Barcellona.

Al suo ritiro fu immediatamente ritirata la maglia numero 33, che lo ha accompagnato in tutta la sua carriera. Nel 1996 fa una fugace apparizione nel film Space Jam, nel quale, in un breve
dialogo con Jordan, viene detto: “Ma Larry non è bianco: è solo scolorito”, alludendo al fatto che, prima di lui, non ci siano
stati giocatori di basket, ‘bianchi’, in grado di competere a livelli molto più che alti. Nel 1998 viene inserito, inevitabilmento,
nella Nairsmith Hall of Fame.

Dal 1997 al 2000 si è seduto, in qualità di head-coach, sulla panchina degli Indiana Pacers, vincendo anche il titolo di Allenatore dell’anno nel 1997-1998. Poi, però, nel 2000 lasciò la panchina, contro il volere dei tifosi, chiedendo espressamente di essereBird_Larry_ind_070425 succeduto da Rick Carlisle, ma i Pacers preferirono darla a Isaiah Thomas, che non è ben visto da Bird, che, insieme a Michael Jordan, lo escluse di fatto dal Dream Team. Nel 2003 torna ai Pacers,
questa volta con l’incarico di general manager, e la prima cosa che fa è liquidare Isaiah Thomas, rimpiazzandolo proprio con
Carlisle, che però viene a sua volta licenziato, dallo stesso Bird, nella stagione 2006-2007 a causa dei pessimi risultati
ottenuti dalla squadra. Nel 2012, dopo essere stato nominato General Manager of the Year, lascia, per poi tornare un anno
più tardi.

La grandezza di Bird è stata la sua innata voglia di vincere. Non c’è mai stato un giocatore così desideroso di vincere come Larry Bird; e non ci sarà mai. Il suo carisma fuori dal comune portava i suoi compagni ad essere come lui, semplicemente perché “se lo fa Larry devo farlo anche io”, diceva qualche suo compagno. Un leader nato e un provocatore provetto. Sì un provocatore nel vero senso della larry-bird-dr-jparola. Amava, infatti, stizzire i suoi avversari schernendoli durante le varie fasi di gioco. Di aneddoti su di lui ce ne sono a centinaia, basti pensare che, in una partita contro i Pacers, giocata nel giorno di Natale, si girò verso Chuck Person, che si trovava in panchina, dicendo: “Chuck, voglio farti un regalo”. Dopo pochi secondi ricevette palla, fece un passo indietro e sparò da 3 punti e, prima che la palla entrasse, si girò verso Person e disse: “Merry fuckin’ Christmas!”. Altro episodio molto simpatico, raccontato, con il sorriso sulla bocca, da Xavier McDaniel, risale a una partita molto tirata tra i Seattle SuperSonics e i Celtics. A pochi secondi dalla fine, con il risultato in bilico, Bird disse: “Xavier, guarda: questo è il punto da cui ti tirerò in faccia il tiro della vittoria”, McDaniel gli rispose: “Se ci riesci”. Detto e fatto, Larry ricevette palla, si portò in quel punto, sparò e segnò, ma non era soddisfatto e disse a McDaniel: Peccato, vi ho lasciato 2 secondi, ve ne avrei voluti lasciare 0″. Spesso mentre il suo allenatore spiegava gli schemi lui si girava verso la panchina degli avversari per spiegarli anche a loro, tanta era la sicurezza che aveva. La fine di questa storia la lascio al suo più grande rivale, e amico: Magic Johnson. “Larry, tu mi mentisti una volta sola nella tua vita: una volta mi dicesti che in futuro ci sarà un nuovo Larry Bird. Larry, non ci sarà mai, mai, mai e poi mai un altro Larry Bird”.

Per Dunk NBA
Shedly Chebbi
(@shedly7)

Allen Azail Iverson: nato per essere il migliore

Allen Azail Iverson nasce il 7 giugno 1975 a Hampton, una città indipendente situata nello stato della Virginia. Sua madre, Ann, lo concepisce a iverson_bambino15 anni con Allen Iverson, un ragazzo del ghetto, che sta vicino alla ragazza fino al momento del parto, per poi sparire nel nulla. Ann, innamorata follemente di Allen, decide di dare al bambino lo stesso nome del padre. Il destino decide che Allen debba crescere in fretta. Infatti, Micheal Freeman, compagno della madre e padre delle sue sorelle, l’unico che sostenesse in maniera seria la famiglia, viene accusato di omicidio e torna in carcere, questa volta per sempre. Sì, torna in carcere, perché per aiutare economicamente Ann ci era già finito diverse volte per dei piccoli guai, soprattutto furti. In questo clima, che definire difficile è quasi un complimento, Allen, a soli 12 anni, è costretto a diventare l’uomo di famiglia. E’ lui, infatti, a crescere le sorelle ed a accudirle quando la madre è a lavoro.

Il destino avrebbe voluto che Allen Azail Iverson diventasse un grande giocatore di football, suo sport preferito, che praticava da ragazzino. Ma, a volte, il destino compie delle sviste, in questo caso una svista fortunata per i fans della palla a spicchi: un pomeriggio sua madre decide di andare a chiamare Allen per farlo rientrare in casa e lo vede giocare a basket con gli amici. Una madre qualunque non avrebbe fatto caso a niente e si sarebbe messa a urlare frasi del tipo: “Allen, è tardi! Vieni a casa!”. Ma non Ann. Ann lo vede e resta stupita delle cose che fa quel bambino di 10 anni e si convince che suo figlio sarebbe potuto diventare la salvezza della sua famiglia e diventare un professionista. Tanto che, a insaputa del bambino, lo iscrive nella squadra di basket locale. Il giorno dopo Allen si veste per uscire, ma sua madre lo ferma e gli dice: “Tu, oggi, non vai da nessuna parte. Tra mezz’ora passa il pulmino e vai a giocare a basket in una squadra”. Allen pianse per mezz’ora filata. Non considerava il basket come uno sport da uomini.

Arrivato alla palestra, con gli occhi inevitabilmente gonfi, però, vide che c’era qualche suo amico del football e si decise che forse andar là non sarebbe stato così male. Il suo primo allenatore resta a bocca aperta, quel ragazzino fa cose con il pallone che uno di 10 anni, probabilmente, non immagina neanche di poter fare da grande. Allen riesce a farsi anche un nome nell’ambito dei playground, dove passa gran parte del suo tempo libero, insieme all’amico di sempre: Tony Clarck. Tony e Allen sono inseparabili, si considerano fratelli. Ma la vita colpisce, nuovamente, il giovane Iverson: Tony viene trovato morto. Si scoprirà soltanto qualche tempo dopo che ad ucciderlo è stata la sua ex ragazza. Intanto Allen si iscrive alla alla Bethel High School, dove, con il suo grande carisma ed il suo grande talento, diventa subito la guardia titolareIverson_football della squadra di basket ed il quarterback titolare della squadra di football. A 15 anni il suo nome era già scritto sui blocchetti di molti talent scout, grazie al titolo di MVP di un camp, di basket, organizzato ad Indianapolis. A sedici riesce a far volare la squadra di football americano della Bethel, andando a conquistare il titolo statale ed il titolo di miglior quarterback. In questo anno il giovane Allen trova una sicurezza tale da dichiarare, più volte ed in modo convicente, che sarebbe potuto essere in grado di battere Micheal Jordan in uno contro uno. Durante i festeggiamenti per il titolo statale di football gli chiesero quale fosse il suo prossimo obiettivo. Lui non ci pensò un attimo e rispose subito: “Vincere anche sul parquet”. Detto fatto. Dopo appena un mese porta i suoi alla vittoria del titolo statale e fu eletto miglior giocatore della Virginia. A questo punto è chiaro che Allen deve soltanto scegliere se diventare una superstar nel football o nel basket. Ma prima il destino gli riserva, nuovamente, una pagina amara come una sconfitta di un punto sulla sirena: Iverson_highschoolviene arrestato. Per festeggiare le vittorie sportive, lui ed i suoi compagni si recarono in un locale, un bowling per l’esattezza, e fu in quel locale che trovarono dei guai. Sotto le spoglie di alcuni ragazzi ‘bianchi’, il destino crudele, raggiunse Allen ed i suoi amici, scatenando una rissa. Iverson fu processato ed accusato di aver colpito, con una sedia, una ragazza. Le immagini delle telecamere di sicurezza non confermano la versione dell’accusa e neanche il coinvolgimento di Allen Iverson nella rissa. Allen, infatti, compare all’inizio del filmato, per poi sparire, e non si vede nessuna sedia colpire ragazze. Il processo fu una vera e propria ingiustizia. Il giudice,iverson_prigione infatti, fece appello ad alcune legge razziali ancora in vigore e condannò Iverson ed alcuni suoi amici ad una pensa di 5 anni. La fine di tutto. La fine dei giochi, la fine dei sogni. Ma ecco arrivare l’eroe della situazione a tirar fuori dai guai lo sfortunato ragazzo. Dopo esser ricorso in appello, infatti, un nuovo giudice prese in mano il caso e, dopo aver visionato i filmati, tramutò la pensa in ‘soli’ 4 mesi. Iverson se li fa tutti senza dire ‘pè’. In carcere gli viene proibito di praticare sport, ma riesce, comunque, a non essere preso di mira dagli altri detenuti grazie ad alcuni carcerati amici del suo padre naturale ed a altri amici di Micheal Freeman.

Il tempo passato in carcere, oltre a farlo maturare ulteriormente, gli permette di decidere del suo futuro. E’ proprio in prigione che decide di voler giocare a basket e non a football. Una volta uscito, però, la sua reputazione aveva fatto tirare indietro tutti i suoi pretendenti. Non c’era un college che volesse avere Iverson. Le uniche persone a credere in lui sono quelli della Nike, che gli danno modo di mettersi in mostra al Prep-Star, evento molto seguito dagli scout dei college. E’ proprio qui che John Thompson, coach di Georgetown, ha modo di vederlo dal vivo e di parlare con la madre. Thompson resta molto colpito dal modo in cui la madre, quasi disperata, cerca di convincerlo a portare Allen a Washington e, capendo le problematiche di chi vive in un ghetto, essendoci cresciuto lui stesso, decide, fregandosene dell’opinione delle persone, di prenderlo sotto la sua ala protettrice. Alla Georgetown Thompson fa in modo che ad Allen non manchi niente e lo tiene lontano dalle malelingue.

Iverson_collegeNella nuova squadra è il migliore. Ha delle statistiche incredibili, che tralasciamo perché non renderebbero il giusto merito al maniera di giocare di Iverson. Per due anni di seguito vince il premio di miglior difensore e ruba-palloni e viene inserito nel quintetto ideale All-American. Il college, nonostante le agevolazioni, ha dei costi che la madre di Iverson non può sostenere. Così, dopo averne parlato a lungo con coach Thompson, Iverson decide, dopo soltanto due anni di college, di passare al professionismo, rendendosi eleggibile al Draft NBA del 1996 e diventando il primo giocatore, proveniente dalla Georgetown, a non essere arrivato al quarto anno.

Quell’anno la prima scelta assoluta se la giocano i Toronto Raptors ed i Philadelphia Seventysixers. Quando è stato annunciato che i Seventysixers avrebbero avuto la prima scelta Pat Croce, che all’epoca era General Manager dei Seventysixers, impazzì dalla gioia. Iniziò a mattere le mani ai colleghi e a saltare. Quello era il Draft di Iverson. Sì quel Draft vedeva molti altri campioni, Bryant e Ray Allen su tutti, ma l’idea di avere la possibilità di portare Allen Iverson a Philadelphia fece letteralmente impazzire Croce.

Alla sua prima stagione in NBA ha un impatto molto, molto, positivo, risultando il Rookie of the Year. In questa stagione Iverson si trova ad Iverson_draftaffrontare Michael Jordan, la leggenda, e, memore di quanto detto da bambino, prende palla e lo punta in uno contro uno. Palleggio, cross-over, le caviglie di Jordan si bloccano e Iverson lo supera e segna. Esattamente come aveva detto molti anni prima. Sempre nella sua stagione da rookie batte il recordo di Wilt Chamberlain, andando a segnare più di 40 punti per quattro partite consecutive. Le prestazioni del giovane Iverson, però, non bastano a trascinare Philadelphia ai play-off ed al termine della stagione la squadra cambia allenatore. A sedersi sulla panchina dei Sixers è Larry Brown. Tutto l’opposto di Iverson. Brown è un tradizionalista, amante del gioco di squadra ed il terrore di ogni individualista. Iverson invece è il nuovo, la voglia di cambiare gli schemi e vuole essere la squadra. Brown, però, vede in lui il punto da cui far ripartire la squadra e si libera di tutti i giocatori ‘ereditati’, scambiando per gregari di buon livello e sposta Iverson da playmaker a guardia, con l’intenzione di sfruttare al meglio le sue doti realizzative. Nonostante le tante critiche, la mossa si rivela decisiva e la squadra migliora anno per anno.Nel 1998-1999 Philadelphia centra i play-off dopo sette anni di assenza. Ai play-off, dopo aver superato contro ogni pronostico i Magic, partita in cui Iverson lascia il segno facendo registrare il record di 10 palle recuperate in una partita di play-off, i Sixers vengono eliminati dai Pacers. Al termine della stagione 1999-2000, stagione che lo vede per la prima volta all’All-Star Game, il suo rapporto con Brown si incrina definitivamente e, nonostante la sua voglia di restare a Philadelphia, Brown dice al General Manager di non voler trovare Iverson all’inizio della stagione 2000-2001.

Ad evitare il passaggio di Iverson ai Pistons fu il rifiuto di Mateen Cleaves di trasferirsi a Philadelphia. Coach Brown non fu molto contento, ma BKN-FINALS-76ERS-LAKERS-IVERSON2tuttavia riuscì a recuperare il rapporto con Allen Iverson, che una mattina si recò nel suo ufficio dicendo di essere pronto a seguire alla lettera i suoi insegnamenti. Brown prende la decisione di eleggerlo capitano della squadra. Quella stagione fu unica, i Seventysixers giocavano alla grande e Iverson vinse il titolo di MVP dell’All-Star Game. Durante la premiazione Iverson, che non è certo il tipo che si vergogna a parlare in pubblico, prese il microfono e ringraziò compagni, famiglia, amici e Larry Brown, chiedendo ossessivamente dove fosse, come Rocky con Adriana: l’avrebbe voluto affianco a sé in quel momento. Il rapporto tra i due ormai è ottimo. Philadelphia raggiunge i play-off e Iverson vince l’MVP della stagione regolare. Ai play-off riescono, finalmente, a battere Indiana, nonostante la sconfitta sulla sirena in gara 1. In gara due, Iverson trascina i suoi, segnando 45 punti, dando il ‘LA’ alla rimonta dei Sixers. Al secondo turno la sfida è contro i Raptors di Vince Carter e gara 1 si trasforma in una sorta di uno contro uno, che vede Carter segnare 54 punti e Iverson segnarne 50. La serie si decide in gara 7, dove a spuntarla sono i Sixers. In finale di conference gli avversari sono i Bucks e Iverson, uscito malconcio dalla serie precedente e costretto a vedere il minutaggio limitato ed a saltare una partita. Philadelphia riesce ad approdare in finale vincendo in gara 7. In finale ad attenderli ci sono i Los Angele Lakers, imbattuti ai play-off. In gara uno, però, i Lakers vedono terminare la propria imbattibilità e i Seventysixers portano a casa la vittoria. Il resto della serie, viste le condizioni fisiche precarie di molti giocatori di Philadelphia, Iverson su tutti, vede i Lakers portare a casa l’anello.

Nel 2003 Larry Brown, nuovo selezionatore e head-coach degli Stati Uniti lo vuole con sé nella Nazionale, che domina i Campionati Americani. Nel 2004, sempre Brown, lo nomina capitano della Nazionale ai Giochi Olimpici, che vedono gli USA arrivare al terzo posto, dopo essere stati sconfitti dall’Argentina di Manu Ginobili.

Nella stagione successiva Iverson trascina i suoi ai play-off, per poi cedere contro i Celtics. Anche l’anno successivo, nonostante il roaster fosse buono, nonIverson_nuggets riescono a centrale le finali NBA, uscendo sconfitti in semifinale di conference contro i Detroit Pistons. Dopo l’addio, a termine della stagione, di Larry Brown, viene spostato nuovamente a playmaker, ruolo che, grazie all’esperienza maturata, padroneggia in maniera migliore rispetto al suo anno da rookie. Tuttavia il suo rapporto con il nuovo coach lo porta ad essere escluso e poi ceduto, nel 2006, ai Denver Nuggets. Con la maglia dei Nuggets trova una buona intesa con Carmelo Anthony ed insieme trascinano, grazie ad un poderoso sprint finale, i Nuggets ai play-off. Nella post-season, però, vengono subito eliminati dai San Antonio Spurs, che vinceranno poi l’anello.

Nel 2008 passa ai Detroit Pistons, che per averlo mandano a Denver Andre Miller, Joe Smith e due scelte ai successivi Draft. Con i Pistons Iverson_pistonsgioca una sola stagione, tra l’altro senza giocare tantissimo, essendo limitato da un infortunio alla schiena. Al termine della stagione, essendo diventato un unrestrict free agent, decide di rescindere e passare ai Grizzlies. Con i Grizzlies, però, gioca appena 3 partite, tutte e tre partendo dalla panchina, dopodiché, molto infastidito dal non essere considerato un titolare, decide di rescindere e tornare al suo vero, grande, amore: Philadelphia. Il suo fisico, però, risente di tutti gli anni passati a mettere il cuore sul campo ed i problemi alle ossa gli consentano di giocare appena 25 partite.

Finita la stagione decide di passare, per preservare il suo fisico, in un campionato meno fisico, ma più tecnico, e firma con i turchi del Besiktas. I turchi, però, non riescono a godersi Iverson, che continua ad avere problemi fisici. Questa volta si parla di una calcificazione al ginocchio, che gli impedisce i Iverson Besiktasmovimenti e lo costringe a star fermo. A maggio 2011 dichiara di essere pronto per tornare in NBA, ma nonostante i rumors che si rincorrono, nessuna squadra decide di metterlo sotto contratto e lui, il 30 ottobre 2013 annuncia il suo ritiro dal professionismo. Il primo marzo 2014 i Seventysixers decidono di donare il giusto tributo ad uno dei più forti giocatori di sempre, ritirando la maglia numero 3, con una cerimonia in pompa magna.

Iverson è stato molto più di un titolo MVP, molto più di due MVP dell’All-Star Game, molto più di 4 titoli di miglior marcatore in NBA, molto più di tre volte ruba-palloni della lega, molto più di un componente, per tre volte, della  squadra ideale NBA, molto più di 11 partecipazioni consecutive all’All-Star Game. Allen Iverson è stato “the Answer”, la risposta, a tutti quelli che si chiedono: “Ce la farà mai un ragazzo del ghetto a diventare qualcuno?”. E quella risposta è: “If you can dream it, you can do it”.

Per Dunk NBA
Shedly Chebbi
(@shedly7)

Karl Malone: il postino suona sempre due volte

Karl Anthony Malone nasce a Bernice, una frazione di Summerfield in Louisiana, il 24 luglio del 1963 in una famiglia di contadini. Fin da bambino vive, molto da vicino, i problemi della segregazione razziale, che affliggevano il sud degli Stati Uniti d’America: a suo nonno fu fatto capire, più di una volta ed in maniera poco amichevole, che probabilmente non era il caso di ampliare l’azienda di famiglia.

karl-maloneUltimo di nove figli, Karl, passa la sua infanzia in una fattoria a Bernice, dove viveva con i suoi fratelli e la madre. Suo padre, che si è sposato per la seconda volta quando Karl era un bambino, si suicidò quando Karl aveva 14 anni, ma la madre glielo ha comunicato soltanto nel 1994. Nella fattoria ha avuto modo di sviluppare il suo fisico, pazzesco, tagliando, a colpi di accetta, alberi ed andando a caccia. Malone frequenta la Summerfield High School, il liceo della sua contea, e gioca nella squadra di basket, portando il suo liceo alla vittoria di tre titoli consecutivi. A questo punto Malone è uno dei prospetti più interessanti della sua generazione e Eddie Sutton, allenatore della squadra dell’Univesity of Arkansas, fa di tutto per averlo con sé, ma dopo una lunga riflessione decide, in accordo con la famiglia, di iscriversi alla Louisiana Tech karl malone 2University per restare vicino alla famiglia. Malone, però, il primo anno non si allena neanche: I suoi voti, infatti, sono troppo voti per gli standard dell’università e non gli viene permesso di unirsi alla squadra di basket. Ammissione che arriva l’anno successivo. Con l’allenatore italo-americano Andy Russo, che è decisivo nella sua carriera in quanto gli da molti consigli su come muoversi da ala forte in fase difensiva, e Karl Malone i Bulldogs centrano, per la prima volta nella storia del college, la qualificazione al torneo NCAA. Per tutti gli anni del college Malone viene selezionato nell’All-Southland, selezione che raccoglie tutti i migliori giocatori collegiali del sud degli Stati Uniti.

maloneNel 1985 si rende eleggibile per il Draft NBA, insieme a campioni come Patrick Ewing, Chris Mullin, Arvydas SabonisManute Bol. Malone viene scelto, con la tredicesima chiamata assoluta, dagli Utah Jazz, squadra che stava cercando il compagno ideale per John Stockton, promettente playmaker pescato al Draft dell’anno precedente. Mai scelta fu più azzeccata. I due si erano conosciuti nel 1984, quando furono chiamati per uno stage pre-olimpico indetto da Bobby Knight, e svilupparono, già in quelle poche settimane, una grande amicizia ed intesa sul campo. A dir la verità Malone sarebbe dovuto finire ai Dallas Mavericks, ma la squadra di Dallas decise all’ultimo di selezionare, con la scelta numero 8, Detlef Schrempf, ala tedesca, rendendo così vano l’acquisto fatto da Malone: un appartamento alla periferia di Dallas. Alla sua prima intervista, subito dopo il draft, fece vedere subito le sue origini ‘provinciali’, dicendo: “Sono molto contento di andare a giocare nella città di Utah“, pensando che il nome ‘Utah’ fosse riferito al nome della città e non allo stato in cui si trova Salt Lake City.

Con la maglia dei Jazz fa vedere grandi cose e si guadagna il soprannome di ‘Postino’ (Mailman), grazie anche a John Stockton, capace dimalone_rookie liberarlo sotto canestro, facendo in modo che lui debba soltanto saltare ed appoggiare la palla, consegnandola proprio come una cartolina postale. Alla prima stagione in NBA, Malone, si classifica al terzo posto nella classifica Rookie of the Year, dietro a Xavier McDaniel (Seattle SuperSonics) e Patrick Ewing (New York Knicks), viene inserito nel primo quintetto Rookie e trascina i suoi Jazz ai play-off, ai quali, per uno strano incrocio del destino, furono eliminati al primo turno dai Dalla Mavericks.

karl-malone 3Malone, come tutti i più grandi sportivi, ha una maniera di allenarsi maniacale, a tratti compulsiva, ed ogni giorno dell’anno, feste comprese, lui si allena sollevando pesi, arrivando anche a sollevare più di 200 kili alla volta, in estate scende dalle ripide prateria dello Utah simulando lo scivolamento difensivo o corre con una specie di paracadute legato in vita. Il suo unico scopo è quello di migliorare la sua resistenza fisica, che pur essendo straordinaria a lui non sembra così buona. Il suo fisico è così imponente e ben definito che sua moglie, alle partite, riceve offerte da centinaia di dollari da parte di facoltose signore che vorrebbero toccare i bicipiti di Karl.

Il tempo passa e migliora le qualità di Malone, così come la sua intesa con Stockton, e nonostante la squadra non riesca ad arrivare alle finali NBA, Karl, inizia ad incantare il pubblico e gli addetti ai lavori, conquistando l’All-NBA Second Team e All-Defensive Second Team nel 1988, tutte le convocazioni all’All-Star Game, dal 1988 al 2002, vincendo due volte l’MVP dell’All-Star game nel 1989 e nel 1993 (a pari merito con l’amico Stockton), l’All-NBA First Team dal 1989 al 1999, l’All-NBA Second Team nel 2000 e l’MVP della regoular season nel 1997 e nel 1998. In mezzo collezione due Ori Olimpici, con il Dream Team, sia quello originale del 1992, che vince anche i Campionati Americani, che quello del 1996.

Il punto più alto della sua carriera, oltre agli ori ottenuti con la Nazionale, lo tocca nel 1996-1997 e nel 1997-1998, quandomalone_with_trophy_display_image gli Utah Jazz, trascinati dai suoi punti, raggiungono le finali NBA. Nella prima, quella del ’97, Malone, forte del suo primo titolo MVP, ma la storia è chiusa in partenza. I Bulls sfruttano al meglio il fattore campo e la presenza di Michael Jordan, Rodman e Pippen fa la differenza e la serie termina sul 4-2 per Chicago.

Nella seconda la storia ha dell’incredibile. I Jazz hanno il vantaggio del fattore campo e, nonostante siano in svantaggio per 3-2 nella serie, la vittoria non sembra essere una cosa tanto campata in aria, visto che i Bulls sono reduci da una stagione altalenante e la partita del Delta Center sta vedendo i Bulls perdere pezzi, su tutti Scottie Pippen, che sembrava infortunato. A 6,6 secondi dalla fine, sul risultato di 86-palla finale malone85, maturato nonostante l’arbitraggio discutibilmente a favore dei Bulls, succede l’incredibile: Malone riceve in post, ma commette l’ingenuità di scoprire il pallone, Jordan ringrazia, lo scippa e va in contropiede e segna il canestro dell’87-85. Coach Sloan chiama il time out, ma lo schema non riesce e Stockton è costretto a cercare la tripla, il suo tiro finì sul ferro ed i Bulls potettero così festeggiare. E’ strano il destino. I due uomini che hanno portato i Jazz così in alto sono stati anche una delle cause della sconfitta in finale. Nonostante tutto i tifosi dei Jazz non si sono mai sentiti di criticare Malone per aver perso quel pallone, lui aveva fatto in modo che, per due stagioni consecutive, loro potessero sognare ad occhi aperti. Già, perché quel ragazzone di 206 centimetri per 116 kili, che pensava che Utah fosse il nome della città, era entrato nei cuori tutti i tifosi di Salt Lake City, grazie alla sua voglia di migliorarsi e di far migliorare tutta la franchigia.

Negli anni successivi ‘l’ufficio postale’, Stockton metteva i timbri e Malone partiva a consegnare, continuò a far bene centrando i play-off, stockton-Malonesenza però riuscire a tornare in finale. Nell’estate del 2003, dopo il ritiro di John Stockton, Malone si trasferisce ai Lakers per quella che è la sua ultima stagione da giocatore. Nonostante l’età, il suo arrivo a Los Angeles fu accolto con grande entusiasmo, tanto che Magic Johnson, ultimo possessore della maglia numero 32, avrebbe voluto fortemente che Malone la indossasse, ma, in segno di rispetto, declinò l’offerta e si mise sulle spalle il numero 11, numero che lo ha accompagnato in entrambe le Olimpiadi. La sfortuna, però sembra accanirsi su Karl, che è costretto a parte della stagione a causa di un infortunio. Lui soffre questa situazione perché in tutta la sua carriera non aveva mai subito infortuni degni di nota, tanto da aver saltato soltanto 10 partite fino a quel momento. Nonostante l’età fa vedere di che pasta è fatto, contribuendo alla conquista della finale NBA, facendo registrare una tripla doppia contro gli Spurs, diventando il più vecchio giocatore a farlo e segnando 30 punti, contro i Rockets, diventando il secondo giocatore più anziano, dopo Kareem Adbul-Jabbar, a farlo ai play-off.

alg-basketball-karl-malone-jpgArrivati alla finale, però, i Lakers di Bryant, O’Neal e Payton devono arrendersi ai sorprendenti Detroit Pistons. Anche questa volta Malone ci è andato vicino, ma non ce l’ha fatta e si ritira con l’amaro in bocca e la consapevolezza che, probabilmente, la sua carriera ed i suoi numeri avrebbero meritato molto di più che un semplice anello. Chiude, infatti, la sua carriera con la bellezza di 36928 punti, al momento del ritiro era il secondo miglior marcatore assoluto alle spalle di Kareem Abdul-Jabbar, che però ha una media punti per partita più bassa, ed il miglior marcatore di sempre per franchigia, 36374 punti con gli Utah Jazz. Di Malone oggi ci restano i suoi record. Record che lo hanno portato ad essere inserito, nel 2010, nella Naismith Hall of Fame e che hanno fatto in modo che oggi fuori dal Delta Center ci sia una statua che lo ritrae mentre schiaccia, con accanto la statua dell’amico di sempre Stockton intento a servigli l’assist.

Attualmente detiene la bellezza di cinque record individuali: record di tiri karl malone statualiberi tirati (13188), record di tiri liberi realizzati (9787), record di rimbalzi difensivi (11406, record limitato dal fatto che i rimbalzi offensivi vengono introdotti nel conteggio dopo la stagione 1973-1974), record di assist forniti da ala grande (5248), record di palle recuperate da ala grande (2085). Nel 1996, quando ancora era in attività, ed al top della sua straordinaria carriera, è stato inserito tra i 50 migliori giocatori NBA di tutti i tempi ed il 24 marzo del 2006 gli Utah Jazz hanno deciso di rendere omaggio al grande campione, ritirando la maglia numero 32 con una bella cerimonia. L’ultima volta l’abbiamo visto all’All-Star Game del febbraio 2014, quando è stato componente del ‘Team Durant’, formato, ovviamente, da Kevin Durant e la stella WNBA Skylar Diggins, che ha partecipando, perdendo in finale, alla Shooting Star Competition.

Certe volte la sorte vuole che una decisione presa all’ultimo mento, in questo caso la scelta dei Dallas Mavericks di scegliere Detlef Schrempf, possono cambiare il corso degli eventi e regalarci delle pagine di storia sportiva. Chissà cosa sarebbe successo se Malone non avesse mai avuto la possibilità, se non con il Dream Team, di giocare con John Stockton. Chissà se sarebbe diventato comunque il postino. La cosa non ci interessa, noi ci prendiamo la storia, con molto piacere, così come è venuta ed è bello pensare che quel ragazzino che tagliava gli alberi, in un paese dove il numero della popolazione del bestiame supera quella degli umani, sia stato per anni il porta lettere dell’NBA. Il postino suona sempre due volte, ma se cercavi di fermare la ‘consegna’ di Malone, potevi star pur certo che avrebbe ‘suonato’ uno squillo aggiuntivo.
Per Dunk NBA
Shedly Chebbi
(@shedly7)

Drazen Petrovic: quel diavolo di Sebenico

Drazen Petrovic nasce a Sebenico (Sibenik in croato), Croazia, il 22 ottobre del 1964. Nato in una famiglia molto dedita alla pallacanestro, suo fratello Aleksandar, detto Aza, è stato professionista e componente della Nazionale jugoslava, inizia a giocare fin da bambino, denotando fin da subito delle doti, soprattutto tecniche, molto marcate. L’avventura nei professionisti di Drazen inizia proprio da Sebenico, infatti a quindici anni entra a far parte, seppur non giocando molto, dello Sibenik, che era stato fondato appena 5 anni prima.

petrovic sibenikA Sibenik, o Sebenico, Drazen ha le chiavi della palestra ed ogni mattina lui si sveglia alle 6 in punto, si prepara, e prima di andare a scuola va in palestra ad allenarsi. Sì perché Drazen Petrovic è un perfezionista, quasi compulsivo, e lui deve allenarsi. Non vuole, deve. Ha bisogno di allenarsi perché semplicemente vuole essere il migliore. Poi va a scuola, ma la sua testa resta comunque in quella palestra. L’anno successivo, a sedici anni, diventa addirittura titolare. Per fare un esempio, a memoria d’uomo, ad imporsi come titolare a soli sedici anni, risultando anche decisivo, in uno sport di squadra è stato Diego Armando Maradona nell’Argentinos Junior.

Nel 1982 Petrovic si afferma definitivamente in patria ed in Europa, conducendo Sibenik alla finale di Coppa Korac, la terza competizione europea per club, che prende il nome da Radivoj Korac, leggenda del basket jugoslavo tragicamente scomparso in un incidente stradale. Il Sibenik, però, non riesce a portare a casa il trofeo nella finale giocata a Padova contro il Limoges. Due anni più tardi Mirko Novosel, allenatore del Cibona Zagabria, campioni nazionali in carica, incarica Aza di convincere il fratello a trasferirsi a Zagabria. La resistenza di Drazen non è dovuta al fatto di dover cambiare città ed abitudini o la paura di passare per quello che gioca grazie al fratello. Tutt’altro. Drazen Petrovic è seguito da molti club, fuori dai confini nazionali. Su tutti i Portland Trail Blazers. Sì, a 20 anni, pur giocando in una squadra non molto grande, Petrovic aveva attratto su di sé le attenzioni degli osservatori NBA. Alla fine, però, le rigide regole sul espatrio vigenti in Jugoslavia lo costringono a rimanere in patria e passa al Cibona Zagabria.

Nell’estate del 1984 gioca le Olimpiadi, della spedizione jugoslava fa parte anche Aza, con la propria Nazionale arriva al terzo posto, dopo esser stati battuti in semifinale dalla Spagna e vincendo con il Canada nella finale per il terzo e quarto posto. In Nazionale, così come aveva fatto con le rappresentative giovanili, si mette in mostra per la grande intesa che ha con un altro grande del basket jugoslavo: Vlade Divac. Con Divac ha un rapporto molto speciale. I due hanno condiviso, in tutti ritiri della Nazionale, la stanza ed hanno sviluppato un’amicizia molto forte. Erano uno l’opposto dell’altro: Drazen era un perfezionista, il primo ad alzarsi la mattina, il primo ad arrivare all’allenamento ed il più concentrato, Vlade, invece, era il burlone del gruppo, l’ultimo ad alzarsi, l’ultimo ad arrivare al campo, ma il primo a voler scherzare. I due si troveranno a meraviglia proprio per questo.

Conclusa l’esperienza olimpica inizia l’avventura al Cibona Zagabria. Con la squadra di Zagabria ha un impatto devastante. Vince quattropetrovic cibona zagabria titoli nazionali, in quattro anni, due Coppe dei Campioni, prima del suo arrivo la squadra, in Europa, ‘vantava’ un record di 10 partite e 0 vittorie, una European Cup e tre coppe nazionali. I titoli individuali si sprecano, la media punti nei quattro anni passati a Zagabria è da brividi: 43,3 punti a partita.

Dopo aver vinto tutto in patria, in Europa e dopo aver incantato tutta il vecchio continente, e non solo, arrivando al terzo posto agli europei di Spagna ’86, decide di lasciare la sua terra natia per trasferirsi proprio in Spagna, dove ad attenderlo c’è il Real Madrid. I ‘blancos’ per garantirsi le prestazioni di quello che ormai è conosciuto come ‘il Mozart dei canestri‘ o ‘il diavolo di Sebenico‘, nonché miglior giocatore europeo, gli offre un contratto da 4 milioni di dollari a stagione. Per il periodo una cifra spaventosa e spropositata.

Prima di trasferirsi nella nuova squadra, però, c’è un nuovo impegno con la Nazionale: le Olimpiadi di Seul. Alle Olimpiadi la Jugoslavia gioca divinamente, e non potrebbe essere altrimenti vista la qualità della rosa a disposizione, ma la corsa all’oro si ferma sul muro sovietico, in finale i ragazzi della ‘generazione d’oro’ non possono far altro che prendere l’argento, con la consapevolezza che un giorno si sarebbero presi una rivincita contro i sovietici. Un mese più tardi la Nazionale jugoslava giocò, in casa, una partita amichevole contro i Boston Celtics di Larry Bird. Tutti i giocatori della rappresentativa jugoslava erano tesi, ma non Petrovic. Petrovic sapeva di essere pronto. Sapeva che avrebbe messo in mostra tutte le sue qualità. Così è stato. Non fu tanto il numero di punti messo a segno ad impressionare, ma i tiri, specialmente da tre, che si è preso ed ha mandato a bersaglio. Ha messo a segno dei tiri che, vedendo l’immagini della partita, uno dice: “No, dai. Non è possibile!“.

Petrovic Real MadridNella sua stagione a Madrid non tradisce le aspettative, anzi. Probabilmente supera anche le fantasie dei tifosi sulle sue prestazioni. Eclatante è la sua serie di cinque partite, tutte e cinque vittoriose, nella quale segna un totale di 207 punti, 41,4 a partita. Con lui il Real non riesce a vincere in campionato, ma porta comunque a casa la Copa del Rey e la Coppa delle Coppe.

A fine stagione succedono due cose molto importanti nella vita di Petrovic: una è la caduta del muro di Berlino, che rivoluzionerà tutto l’est Europa e la Jugoslavia, l’altra è che lui può finalmente andare a Portland, con i quali aveva già firmato nel 1984. Contemporaneamente si rende disponibile al Draft Valde Divac, che essendo europeo non è scelto al primo giro, ma finisce comunque ai Lakers di Magic Johnson.

Nello stesso anno ci sono gli Europei, che si tengono in Jugoslavia e la sconfitta, subita soltanto un anno prima, contro l’Unione Sovietica sembra aver fatto raggiungere un livello di maturazione tale da non poter perdere più. La Jugoslavia vince, a mani basse, la competizione davanti al pubblico di casa. Con il titolo in cassaforte, Drazen parte per Portland, con le valige piene di vestiti e speranze. “In Europa sono il più forte e ho vinto tutto. Non mi interessa continuare a vincere e a collezionare coppe. Cerco altre sfide e voglio dimostrare di poter giocare anche nell’Nba“. Così si è presentato in un’intervista a Sport Illustrated.

Purtroppo le cose non vanno come si aspetta. I Trail Blazers, infatti, hanno ben cinque playmaker in squadra, Drexler, Porter, Ainge, Young e lui, che però non piace al suo coach, che vedeva in lui un giocatore troppo individualista. Petrovic cade in una specie di depressione e per scaricare tutto si allena e passa nottate intere al telefono con Valde Divac, che intanto si sta affermando ai Lakers. E’ emblematico quanto raccontato da Danny Ainge: “Un giorno dopo l’allenamento della mattina andai a casa sua, mangiammo e io mi addormentai sul divano. Quando mi svegliai lo vidi sulla cyclette, tutto sudato che pedalava. Gli dissi: ‘Hey! Che fai? Tra un’ora dobbiamo tornare ad allenarci e tu pedali?’ e lui non mi ascoltò neanche”.

Al primo anno di NBA il suo minutaggio medio a partita è di 15 minuti. Lui si sente letteralmente legato e più volte dichiara: “Se giocassi drazen petrovic trail blazersalmeno 20 minuti a partita potrei essere decisivo”. Ma quando un allenatore si fa un’idea su un giocatore è difficile che la cambi. L’avventura con i Trail Blazers, nonostante tutto, va avanti e la compagine di Portland centra subito la finale NBA. Gli avversari di turno sono i Detroit Pistons dei ‘bad boys’, che portano a casa la vittoria, imponendosi per 4-1 nella serie.

Nel 1990 ci sono i Mondiali. Questa volta in Argentina, un’altra occasione per Petrovic, e molti altri suoi compagni jugoslavi, di mettersi in mostra davanti a tutto il mondo. Quella competizione non viene vinta dalla Jugoslavia, viene stra-vinta. In finale contro quel che resta dell’Unione Sovietica è un trionfo. La rivincita è stata presa. Ma al termine della partita accade l’episodio che cambia per sempre il rapporto tra Drazen e Divac.

Prima di raccontarlo, però, vanno fatte delle premesse. La prima è che la competizione si svolse in Argentina, terra che ospitava, come rifugiati politici, tantissimi ‘ustascia‘, ultra-nazionalisti croati molto tendenti al nazismo. La seconda è che Vlade Divac viene da Prijepolije, un piccolo villaggio in Serbia in cui la sua famiglia è praticamente formata dai leader spirituali del villaggio. Detto questo torniamo in Argentina. E’ finita la partita, i giocatori si abbracciano, stringono le mani ai giocatori avversari e, qualche tifoso fa invasione, festosa, di campo. Uno in particolare va davanti a Divac mostrandogli la bandiera croata. Lui lo guarda e gli dice di toglierla poiché la Jugoslavia aveva vinto e non solo la Croazia. Di tutta risposta si sente dire frasi poco carine nei confronti della Jugoslavia, nazione in cui lui credeva fortemente e, qui entra in gioco il carattere petrovic divac mondiali dominante di Divac, gli strappa la bandiera di mano e la getta via. Tutti se ne accorgono e capiscono che il gesto è stato fatto per preservare lo spirito festivo che si era creato all’interno del gruppo jugoslavo. Ma non Petrovic, che viene a saperlo tramite i media croati. E non c’è niente di peggio. Sia serbi che croati, infatti, strumentalizzano il gesto del centro della Nazionale, ognuno a proprio piacimento e Petrovic, che ha un forte senso di appartenenza croato non ricucirà mai il rapporto con il suo grande amico. Più volte Divac cercherà di chiarire il fatto e cercherà anche di farlo attraverso i suoi compagni, ma Drazen non ne vorrà più sapere.

Nel 1991 passa ai Nets, che, nonostante avesse uno scarso minutaggio ai Trai Blazers, intravedano in lui le potenzialità per trascinare la squadra del New Jersey. Con i Nets ha un impatto buonissimo e diventa, quasi subito, l’idolo della tifoseria. Sì, negli USA basta veramente poco per passare dall’essere il ‘signor 15 minuti’ ad essere un idolo. Una volta Vernon Maxwell, che al tempo era la guardia dei Rockets, disse: “Non esiste un giocatore europeo, e bianco, che mi faccia le scarpe”. Queldrazen petrovic nets giorno Petrovic gli rifece tutta la scarpiera, sparandogli in faccia 44 punti, maggior parte dei quali liberandosi della sua marcatura. Nel New Jersey acquisisce una sicurezza tale che pian piano si afferma come una delle stelle NBA, tanto che diventa un problema anche per Michael Jordan, che spesso è costretto a vederlo segnargli in faccia più di 30 punti. Diventa il primo giocatore europeo ad entrare nei migliori 15 giocatori della lega, il secondo non americano dopo un’altra leggenda: Hakeem Olajuwon.

Alle Olimpiadi del 1992 trascina la neonata Croazia alla finale, che verrà poi persa, nonostante la grande prestazione proprio di Petrovic, contro il ‘Dream Team’ americano, che vantava tra gli altri Michael Jordan e Magic Johnson. Molti si stanno ancora chiedendo come sarebbe andata quella partita se il muro di Berlino non fosse mai caduto, certamente non con lo stesso risultato, 85-117, visto che Petrovic fu il miglior marcatore della partita, davanti a Jordan, con 24 punti.

Ormai è una stella affermata e vuole vincere il titolo, ma i Nets sono una squadra con buone potenzialità e poca esperienza per poter raggiungere obbiettivi così prestigiosi e lui decide che a fine stagione, comunque vada, non rinnoverà il contratto per trasferirsi in una squadra che punta al titolo.

A giugno, però, decide di partecipare, nonostante la squadra non ne avesse realmente bisogno, alla partita di qualificazione della Nazionale della Croazia in Polonia. La partita lo vede, ovviamente, come migliore in campo. L’aereo che dalla Polonia deve riportare i giocatori in Croazia, però, deve far scalo a Francoforte. E’ proprio a Francoforte che Drazen ha appuntamento con la fidanzata: Klara Szalantzy – attualmente la moglie dell’ex calciatore tedesco Oliver Bierhoff-. Drazen decide di proseguire il viaggio in auto, probabilmente il suo scopo era quello di arrivare direttamente a Sebenico. I due, in realtà tre, poiché Klara si era fatta accompagnare da un’amica, si mettono in viaggio e dopo qualche kilometro si fermano ad un autogrill. Quando si rimettono in viaggio, però, Drazen è troppo stanco per continuare a guidaree chiede a Klara di prendere il suo posto, addormentandosi sul sedile anteriore della Golf. All’altezza di Denkendorf, l’autostrada fa una salita, superata la quale Klara trova un camion fermo: la ragazza si spaventa e sbaglia il tempo della frenata. E’ un secondo, e Petrovic, che stava dormendo, ha la peggio e muore. Il 7 giugno 1993 se ne va, a 28 anni, il più grande cestista europeo di 

incidente petrovictutti i tempi. Muore proprio come un’altra leggenda del basket balcanico: Korac. Qualcuno racconta che i funzionari tedeschi, addetti al trasporto della salma di Petrovic, non avessero una bara abbastanza grande per trasportare il suo corpo e, così, non trovarono altra soluzione che dissanguarlo completamente per poter ripiegare il corpo su se stesso e farlo entrare in quella che avevano a disposizione. Stojan Vrankovic, 218 centimetri per 118 kili, centro della nazionale croata, ha assistito alla scena ed in preda ad un raptus cercò di uccidere con le sue mani i funzionari tedeschi. Con la stessa delicatezza chiamarono a casa di Drazen dicendo : “Pronto, è casa Petrovic? Suo figlio Drazen è morto”. La madre, che rispose al telefono, riagganciò e corse verso il balcone, la fermò il padre di Drazen, afferrandola un per un braccio. Klara Szalantzy, ovviamente, non si è mai ripresa dall’accaduto. Vlade Divac, invece, quando è accaduto il fattaccio si trovava in vacanza, con la famiglia, alle Hawaii. Rientrò nella sua stanza per vedere una partita in televisione e vide la foto di Petrovic in primo piano, ma in quel momento non capì subito cosa stava succedendo perché in quel periodo il nome di Petrovic era molto citato nelle trasmissioni sportive, visto che si stava per trasferire in una nuova squadra. Quando capì rimase shockato e chiamò la moglie, che era fuori, in lacrime. Quando i compenenti della Croazia andarono a trovare la famiglia, la madre di Drazen abbracciò Dino Rada, un altro degli inseparabili amici del gruppo della Jugoslavia, e urlò, senza lasciarlo un secondo, la sua disperazione per mezz’ora. “La mezz’ora più lunga della mia vita”. Così la definisce Rada. Ai funerali di Petrovic, a Zagabria, parteciparono cento mila persone, la bara fu portata da Toni Kukoc e Dino Rada. Vlade Divac, che avrebbe divac tomba petrovicvoluto fortemente esserci, decise di non andare. In Croazia, con ancora la guerra a fare da sfondo, non sarebbe stato il caso. Tornerà sulla tomba di Drazen qualche anno dopo, quando la situazione si sarà calmata e lascerà sulla tomba dell’amico una foto in cui i due si abbracciano dopo la vittoria dei Mondiali.

Drazen Petrovic, il Mozart dei canestri, è stato il primo apripista per tutti i cestisti non americani, che sognano di giocare nella NBA. Prima di lui c’era stato Hakeem Olajuwon, che però era di fatto un prodotto dei college americani. Come lui anche Divac, ma era completamente diverso: Petrovic giocava al livello dei più grandi di sempre. Chiunque non sia americano, ed oggi gioca in NBA, dovrebbe alzare gli occhi al cielo, allargare un bel sorriso e dire: “Grazie, Drazen!“.

Per Dunk NBA
Shedly Chebbi

David Robinson: un campione per caso

David Maurice Robinson nasce sull’isola di Key West, Florida, il caldo 6 agosto 1965. Fin da bambino David denota un’intelligenza fuori dal comune, la passione per la lettura e per i computer, che amava smontare e riassemblare. I suoi interessi riguardano tutto tranne che il basket. Al giovane Robinson piace la matematica, non gli interessa molto di passare il tempo con altre nove persone in canottiera e calzoncini. Tanto che alla High School, che frequenta con brillanti risultati, gli amici quasi gli impongono di giocare con la squadra della Osbourn Park.

navyIn realtà David ha altri progetti e non gioca molte partite. Infatti, nell’anno scolastico 1982-1983 studia, in maniera quasi maniacale, per ottenere un punteggio alto ai test di ammissione alle università e riesce a coronare il suo sogno di essere accettato all’Accademia Navale di Annapolis, The Yard, per diventare sommergibilista. Nei primi due anni di college viene convinto dai compagni, che lo hanno visto giocare sporadicamente nel tempo libero, ad unirsi ai Navy Midshipmen, la squadra dell’Accademia.

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Al primo allenamento accade un fatto curioso: Robinson prova a schiacciare. Sì, perché Robinson, che a 18 anni era altro 198 centimetri, non aveva mai schiacciato, non gli era mai importato. Robinson ci riesce, vista l’altezza non poteva essere altrimenti, e ne resta molto sorpreso. E’ qui che il giovane David Robinson inizia a capire che molto probabilmente prendere in considerazione l’idea di fare del basket la sua professione non sarebbe stata una cattiva idea. Lui, però, ha un obbiettivo, che viene prima di ogni altra cosa: vuole laurearsi in matematica. Dopo essere stato, per i primi due anni, il centro di riserva della sua squadra collegiale, Robinson, diventa titolare e colleziona ben 33 record statistici dell’Accademia ed anche alcune onorificenze collegiali. Durante gli anni dell’Accademia David ha una crescita, quasi, spropositata: passa dai 198 centimetri del suo ingresso ai 213 centimetri nel giro di 3 anni.

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La sua altezza gli causa qualche problema con la Marina, sfora di qualche centimetro l’altezza massima consentita per un militare, ma gli viene concessa una deroga per continuare a prestare servizio. Nel 1987, presa la laurea in matematica, si rende disponibile per il Draft NBA e viene scelto, con la prima scelta assoluta, dai San Antonio SpursRobinson, però, è legato per altri due anni alla Marina Militare statunitense e per due anni, oltre a non poter giocare come professionista, presta servizio militare.

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Durante gli anni di servizio militare, però, gli viene concesso di giocare con la Nazionale di Basket statunitenseEgli, infatti, partecipa, vincendo, ai Mondiali di Spagna 1986, ai Giochi Panamericani del 1987, arrivando al secondo posto e, conquistando la medaglia di bronzo, alle Olimpiadi di Seul nel 1988. Nel 1989, concluso il servizio militare, può dedicarsi alla pallacanestro entrando definitivamente nel roster dei San Antonio Spurs. Gli Spurs, però, in quel periodo non vivono una situazione molto facile: la squadra non gira, i play off non arrivano mai, la squadra è ultima nella e si era già deciso che la franchigia si sarebbe trasferita altroveL’arrivo di Robinson a San Antonio fu come una manna dal cielo, con lui la squadra gira e gli schemi funzionano a meraviglia. Al primo anno, effettivo, di NBA Robinson vince, per distacco, il Rookie of The Year, staccando tutti i diretti concorrenti con 24.3 punti e 12 rimbalzi di media. Nello stesso anno arriva anche la convocazione per l’All Star Game, con le maggiori stelle della lega “The Admiral“, come veniva chiamato nonostante il suo grado fosse quello di Tenente, fa registrare una doppia doppia. Al termine della stagione regolare arriva addirittura al sesto posto nella classifica degli MVP.

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Durante le stagioni successive diventa l’uomo da copertina degli Spurs e continua a migliorare la tecnica ed imparare nuovi movimenti, soprattutto quelli da post alto, i tiri dalla media distanza e la difesa diventò molto più decisa. Robinson difende benissimo in maniera naturale, ma come tutti i grandi campioni ha una mania: Robinson vuole essere perfetto, non si accontenta di limitare i propri avversari. Così l’Ammiraglio inizia a studiare, in maniera quasi ossessiva come faceva con la matematica al tempo della High School, i propri avversari. Nel 1992 viene selezionato, insieme a tutte le maggiori stelle del momento, per il Dream Team, la Nazionale di Basket USA che affronterà i Campionati Americani, vincendoli con uno scarto medio di 50.4 punti, e le Olimpiadi di Barcellona, vincendole senza mai andare in difficoltà.

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Il 24 aprile 1994, ultima partita della regoular season, mette a segno 71 (settantuno) punti, ovviamente il carreer high, contro i Clippers, il nono miglior risultato di sempre, che gli permettono di diventare il top scorer della NBA con 29.8 punti di media. In quella stagione Robinson non vince, come sempre nella prima parte della sua carriera, ma riesce a realizzare una quadrupla doppia, contro i Detroit Pistons, fatta da 34 punti, 10 rimbalzi, 10 assist e 10 stoppate, diventando, insieme a Nate Thurmond, Alvin Robertson e Hakeem Olajuwon, il quarto a farlo e quello che nel farlo ha messo a segno il maggior numero di punti. La stagione successiva sembra essere quella buona. L’anno successivo gli Spurs viaggiano, i Bulls senza Jordan non sono così pericolosi, e la vittoria sembra essere alla portata. Però gli Spurs non riescono a vincere, in una clamorosa serie contro i Rockets, la finale di Conference. Finale che Robinson dichiarerà essere la delusione più grande della sua carriera. Nell’estate del 1996 è ancora tempo di Olimpiadi e, seppur senza molte stelle ormai ritirate, di Dream Team. Inutile dire che quella squadra vince il torneo a mani basse davanti al pubblico di Atlanta, contro la Jugoslavia. In quella partita Robinson mette a segno 28 punti e prende 7 rimbalzi, risultando il top scorer della finale. spurs-david-robinson-gregg-popovichNella stagione successiva arriva la svolta. Anche se Robinson gioca solo 6 partite per infortunio, così come Sean Elliot, sulla panchina di San Antonio approda Gregg Popovich, il mai contento coach, ex assistente allenatore di San Antonio e Golden State. Quella stagione non finisce bene, l’assenza delle due stelle della squadra fa in modo che San Antonio non arrivi neanche ai play-off, ma questo manda direttamente gli Spurs al sorteggio con i Celtics per ottenere la prima scelta assoluta al Draft del 1997. Il sorteggio, nonostante Boston sia favorita, premia San Antonio e Popovic, che ha passato l’estate a corteggiare il collegiale, diventato psicologo, Tim Duncan, non ha dubbi e sceglie proprio lui. Robinson trova sin da subito un’intesa, quasi, perfetta con Duncan, quasi come se fossero nati per giocare insieme e, soltanto dopo una stagione, arriva la tanto agognata finale NBA. Gli avversari sono i Knicks. Tim Duncan PortraitLa serie scorre via veloce e New York non può far altro che guardare i Twin Towers (come venivano chiamati Robinson e Duncan) vincere la serie per 4 a 1. Come MVP delle finali fu scelto Duncan, ma secondo alcuni addetti ai lavori a meritare il titolo di MVP sarebbe stato proprio The Admiral, che però non è il tipo da far polemiche, soprattutto con un compagno di squadra al quale è molto legato e descrive la finale del 1999 come il momento più bello della sua carriera. Un titolo tanto inseguito e voluto da mettere in secondo piano due titoli Olimpici. Negli anni successivi gli Spurs si confermano un top team, senza però riuscire ad arrivare in finale. All’inizio della stagione 2002-2003 l’ormai trentasettenne Ammiraglio annuncia il suo ritiro a fine stagione. Durante la regoular season, in ogni partita che gli Spurs giocano in trasferta, gli viene dedicato un lungo applauso da tutto il palazzetto. Sì perché Robinson non è mai stato uno che si è lasciato andare a comportamenti scorretti, non ha mai provocato nè il pubblico nè gli avversari. Robinson ha semplicemente giocato a basket in maniera corretta, niente di più e niente di meno, riscontrando molto successo anche tra i tifosi delle squadre avversarie. A coronamento di una carriera strepitosa quell’anno la squadra, rafforzata dagli arrivi del play franco-belga Tony Parker e dell’argentino Manu Ginobili, arriva alla finale NBA. Per Robinson arriva l’occasione che tutti vorrebbero: poter chiudere la carriera con l’anello al dito.

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Gli avversari, però, sono tosti. Sono i New Jersey Nets di Kidd. Gli Spurs, però, non battono ciglio e vincono la serie finale per 4-2Per l’Ammiraglio arriva così il congedo ufficiale dall’NBA, da vincente, come tutti sognano di fare.Nel 2009 viene inserito nella Basketball Hall of Fame, assieme a Michael Jordan, John Stockton, Jerry Sloan e Vivian Stringer. Con la Nazionale degli USA ha vinto ben quattro Ori, 2 Olimpici (1992 e 1996), uno Mondiale (1986) ed un Campionato Americano (1992), che fanno di lui il giocatore più vincente degli USA. Nell’arco della sua carriera di club è partito in quintetto base, in regoular season, 985 volte su 987, giocando 34271 minuti, con 20790 punti, 2954 stoppate, 1388 palle rubate, 2441 assist e 10497 rimbalzi. Mentre ai playoff ha giocato 123 partite su 123, da titolare, con 2221 punti, 312 stoppate, 151 palle rubate, 280 assist e 1301 rimbalzi.

A livello personale ha ottenuto i seguenti riconoscimenti:
NCAA AP Player of the Year (1987)
NCAA John R. Wooden Award (1987)
NCAA Naismith Men’s College Player of the Year Award (1987)
NCAA AP All-America Fist Team (1987)
NBA Rookie of the Year Award (1990)
NBA All-Rookie First Team (1990)
Miglior giocatore dell’anno (1995)
NBA Defensive Player of the Year Award (1992)
10 volte All-NBA Team (First Team: 1991,1992,1995,1996; Second Team: 1994,1998; Third Team: 1990,1993,1994,1998)
8 volte NBA All-Defensive Team (First Team: 1991,1992,1995,1996; Second Team: 1990,1993,1994,1998)
Miglior marcatore NBA (1994)
Miglior rimbalzista NBA (1991)
Miglior stoppatore NBA (1992)
10 volte NBA All-Star (1990,1991,1992,1993,1994,1995,1996,1998,2000,2001)

Per Dunk NBA
Shedly Chebbi

John Stockton: sangue freddo e mano calda

John Houston Stockton nasce a Spokane, Washington, il 26 marzo 1962. John studia, e gioca, alla Gonzaga Prep High School, una scuola privata, cattolica e gesuita, istituita a Spokane nel 1887 da Giuseppe Cataldo, un gesuita italiano in missione in America.

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Denotando fin dalla giovane età un carattere timido e, a tratti, schivo, Stockton si mette in mostra per la sua capacità di sfruttare al meglio le caratteristiche dei suoi compagni. Finita l’High School decide di rimanere a Spokane, vicino alla famiglia, continuando gli studi presso la Gonzaga University. Nei quattro anni di college, nei quali gioca con la squadra della Gonzaga, i Bulldogs, mette in mostra tutte le sue capacità tecniche e mentali. Sì perché Stockton non è un gigante, è alto 185 centimetri e pesa 79 kili, e non ha una grande fisicità, ma ha tre grandi doti: sa mettere i compagni in condizioni di rendere al 100%, ha un tiro da 3 punti estremamente preciso e legge il gioco come nessun’altro.

Nel 1984, finito il college, viene selezionato per un trial che la Nazionale degli USA ha organizzato per selezionare il roster che affronterà le Olimpiadi di Los Angeles. Stockton alla fine non verrà selezionato, ma in questo trial ha incontrato una persona che, soltanto pochi anni dopo, cambierà la sua vita per sempre. Quella persona è Karl Malone, che con lui diventerà “il postino”.

Sempre nel 1984 gli Utah Jazz lo scelgono con la sedicesima scelta assoluta. La scelta lascia tutti un po’ perplessi. Detto così, parlando conoscendo come andrà a finire, sembra una cosa strana, al limite della blasfemia. I tifosi dei Jazz, che si erano radunati nella piazza principale di Salt Lake City per seguire il draft, che quell’anno proponeva tra gli altri Michael Jordan, sono così perplessi che fischiano la scelta dei dirigenti dei Jazz. Stockton però non è un tipo che si lascia abbattere. Il suo carattere chiuso è in grado di agire da corazza nei momenti più difficili.

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Le buone prestazioni della stagione 1984-1985 fanno ricredere la maggior parte degli “Stockton-scettici”. Ma la svolta decisiva avviene con il Draft del 1985. A dire il vero la svolta della sua carriera era già iniziata, ad insaputa sua e del mondo intero, durante il Trial del 1984. Sì perché nel 1985 i Jazz hanno la tredicesima scelta assoluta e la sfruttano chiamando Karl Malone. Con lui John lega molto, a tal punto che diventerà uno dei suoi migliori amici. La loro intesa è così forte che i Jazz, che fino a quel periodo non erano una squadra molto quotata, con loro in campo centrano sempre i playoff, arrivando spesso alla finale di conference.

Nel 1992 ci sono le Olimpiadi, ma prima di arrivare a Barcellona gli USA si devono qualificare. Per farlo la Nazionale statunitense deve affrontare il Campionato Americano di Pallacanestro, sarebbe più corretto chiamarlo Panamericano visto che vi partecipano Nazionali del Nord, del Centro, e del Sud America. Il torneo di fatto è una formalità poiché gli USA hanno deciso di schierare il “Dream Team“, formato dai più forti giocatori NBA. Il roster statunitense è così composto: Laettner (chiamato poi nel Draft del 1992 dai Minnesota Timberwolves, e già 2 volte campione NCAA), “the Admiral” Robinson (San Antonio Spurs), Erwing (New York Knicks), Larry Bird (Boston Celtics), Scottie Pippen (Chicago Bulls), Michael Jordan (Chicago Bulls), Clyde Drexler (Portland Trail Blazers), Karl Malone (Utah Jazz), John Stockton (Utah Jazz), Chris Mullin (Golden State Warriors), Charles Barkley (Philadelphia Seventysixers), “Magic” Johnson (che si era ritirato, ma poi richiamato a furor di popolo).

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John Stockton ha così il primo, vero, grande riconoscimento ai suoi meriti e al suo impegno. Inutile dire che gli Stati Uniti si qualificano per Barcellona vincendo tutte la partite, con uno scarto medio di 51,4 punti a partita. Anche le Olimpiadi filano via senza particolari problemi fino alla finale. In finale il Dream Team ritrova la Croazia di Petrovic, già affrontata, e battuta, nel girone. La musica, però, non è la stessa. Petrovic ci tiene a fare bene e gioca divinamente, portando, per qualche momento, i suoi in vantaggio, poi, però, la qualità della rosa a dispozione di Chuck Daly (allenatore all’epoca dei New Jersey Nets) viene fuori e gli USA diventano Campioni Olimpici con il risultato di 76-127. 061412_Dream_Team_575x270-panoramic_17717C’è un particolare: Stockton, che è uno che non si fa mai notare, chiama palla quando mancano pochi secondi alla sirena, i compagni lo accontentano, credendo che voglia cercare di segnare l’ulteriore allungo, ma lui non fa una piega fermandosi e palleggiando, acquisendo così il diritto di portarsi a casa il pallone della finale.

Dopo quattro anni, ed altrettanti play-off che non hanno portato l’agognata finale, è di nuovo tempo di Olimpiadi. Anche questa volta gli USA decidono di schierare il miglior roster possibile. Il roster, privo di MJ e molti giocatori ritirati, è composto da: Charles Barkley (Phoenix Suns), Grant Hill (Detroit Pistons), Penny Hardaway (Orlando Magic), “the Admiral” Robinson (San Antonio Spurs), Scottie Pippen (Chicago Bulls), Mitch Richmond (Sacramento Kings), Reggie Miller (Indiana Pacers), Karl Malone (Utah Jazz), John Stockton (Utah Jazz), Shaquille O’Neal (Orlando Magic), Gary Payton (Seattle SuperSonics), Hakeem Olajuwon (Houston Rockets). L’allenatore, come se una squadra così ne avesse bisogno, è Lenny Wilkens, ex play di Seattle, Cleveland e Portland, al tempo allenatore degli Atlanta Hawks. Anche questa volta le Olimpiadi filano via in un batter d’occhio e gli Stati Uniti si laureano nuovamente campioni Olimpici sotto gli occhi del pubblico di casa. 1996L’avversario in finale è la Jugoslavia di Divac e Danilovic, praticamente l’altra metà della squadra affrontata in finale 4 anni prima. Stockton in finale risulta uno dei migliori, seppur non fosse partito in quintetto, servendo 7 assist. Anche questa volta Stockton chiama palla a pochi secondi dal termine e anche questa volta non la gioca, ma la palleggia, in modo da potersela portare a casaJohn non è il tipo che si lascia trasportare dalle emozioni e per accorgersene basta vedere le immagini del termine delle due finali olimpiche. Sì perché in entrambe le occasioni, dopo il suono della sirena, stringe il pallone sotto il braccio, come se nulla fosse, batte qualche “cinque” a compagni ed avversari e, mentre tutti fanno festa, lui sta li a guardare come un qualsiasi tifoso che, vista eliminare la propria squadra, ha deciso di rimanere per vedere la finale.

stockton-MaloneIl tempo passa e Stockton resta, nonostante le lusinghe di squadre che puntano all’anello, ai Jazz. La stagione ’96-’97 rappresenta il culmine del miglioramento di Stockton e dei suoi compagni, quest’ultimo dovuto, oltre che al lavoro in allenamento, alla presenza proprio di Stockton. La stagione fila via abbastanza bene e, al termine della regoular season, Karl Malone viene premiato come MVP. Rispetto agli anni precedenti la candidatura alla finale dei Jazz sembra essere molto più seria, vista la grande esperienza accumulata. E così è stato. Utah, infatti, fa fuori le due squadre di Los Angeles, prima i Clippers poi i Lakers, e gli Houston Rockets, vincendo la conference e conquistando la finale playoff. La finale però non è di quelle semplici poiché ad attendere Stockton e Malone ci sono i Bulls di Jordan, Pippen e Rodman e i Jazz non riescono a tenere il passo degli avversari e perdono (4-2) la serie finale.

L’anno successivo, nonostante la sconfitta difficile da buttar giù, in finale, Stockton riesce a trascinare di nuovo i suoi in finale, battendo i Rocktes (3-2), gli Spurs (4-1) ed i Lakers (4-0). La finale è ancora contro i Bulls. Questa volta, però, i Bulls arrivano da una regoular season poco esaltante e non sembrano così imbattibili, visto anche che in quest’occasione Utah può sfruttare il vantaggio del fattore campo. I Jazz non vanno mai in seria difficoltà e, anche se la serie è di 3-2 a favore dei Bulls, la vittoria non sembra un’utopia. Ma, come nel peggiore degli incubi, 1998-chicago-bulls-vs-utah-jazz-nba-finalsle cose non vanno mai come i protagonisti vorrebbero. In gara 6, che sarebbe stata decisiva in caso di sconfitta dei Jazz, Utah sta vincendo 86-85 e, visti gli infortuni rimediati da qualche giocatore dei Bulls, Pippen in particolare, la possibilità di giocarsi tutto in gara 7 sembra essere una buona occasione. Ma succede una cosa incredibile: quando mancano 6,6 secondi dal termine Karl Malone, che avrebbe potuto benissimo proteggere palla facendo scorrere i secondi, si fa scippare il pallone da Michael Jordan, che attacca il canestro e segna. Sul Delta Center cala il silenzio, la vittoria sembrava fatta. Il tempo per recuperare ci sarebbe, mancano 5,2 secondi alla sirena, e coach Sloan chiama il time out. Sloan ha le idee ben chiare sul da farsi, conosce i suoi. Conosce soprattutto l’efficacia del gioco a 2 di Stockton e Malone, ma il tempo potrebbe non bastare e non vuole sprecare l’ultimo tiro. Al ché guarda i suoi e dice: “liberate la tripla a John”. Stockton è un gran tiratore, per certi versi è l’unico giocatore dei Jazz, e probabilmente dell’NBA, a cui affidare un tiro decisivo così importante senza farlo esaltare in caso di successo e, soprattutto, senza che si abbatta in caso di insuccesso. Lo schema funziona, anche se Stockton non ha tutta quella libertà che Sloan si sarebbe aspettato, d’altronde i Bulls sanno bene le capacità di quel computer con la maglia numero 12, lui però non può far altro che tirare, ad una prima occhiata, infatti, i suoi compagni non avevano fatto alcun movimento ed erano tutti marcati.

Il Delta Center trattiene il fiato, in un silenzio irreale, da quando il pallone si stacca dalla mano, spesso fatata, di Stockton fino a che essa termina la sua corsa, mestamente, sul ferro. Tanti si sarebbero messi le mani nei capelli, avrebbero mostrato platealmente la propria incredulità, ma non Stockton. Non John Stockon da Spokane. La sua espressione resta la stessa, come l’anno precedente ad Atlanta e 5 anni prima a Barcellona. Non mostra le sue emozioni. Anche questa volta i Jazz ci sono andati ad un passo, ma l’anello è tornato sulle dita di Jordan, Rodman e Pippen come l’anno precedente, come due anni prima. Negli anni successivi, pur partecipando sempre ai playoff, i Jazz non riescono a ripetersi non andando oltre al secondo turno. Al termine della stagione 2002-2003 Stockton decide di lasciare il parquet. Ma, come nel suo stile, rinuncia alla classica conferenza stampa, preferendo un semplice comunicato stampa degli Utah Jazz.

john-stockton-statueDi lui, dopo il ritiro, restano i numeri. Numeri pazzeschi, al di là di ogni immaginazione. Detiene, infatti, ben 4 record assoluti NBA: record di assist realizzati in una stagione (1164 nella stagione 1990-1991), record di assist realizzati in carriera (15806), record di palle rubate in carriera (3265), miglior media assist in una stagione (14,54 nel 1989-1990), maggior numero di assist in una partita (24 contro i Lakers il 17 maggio 1988, record condiviso con Magic Johnson) ed ha la seconda miglior media assist in carriera (10,51, secondo solo a Magi Johnson che di assist ne ha 11,19). Soprattutto il record di maggior numero di assist in carriera è di quelli che fanno venire i brividi. E’ un numero spaventoso perché, mediamente, un giocatore che mira a quel record arriva a 35/36 anni e pensa: “forse se gioco altri 5/6 anni ad altissimi livelli ce la faccio ad avvicinarlo”. Detiene, inoltre, il record per la permanenza più lunga, e continuativa, in un’unica franchigia NBA, avendo giocato, sempre, con i Jazz dalla stagione 1984-1985 alla stagione 2002-2003.

Dopo aver chiuso con il basket giocato, per un brevissimo periodo, ha allenato il Paok Salonicco, ma decise di interrompere la sua avventura da allenatore per ritirarsi a vita privata. Nel 2009 arriva, l’inevitabile, inserimento nella Naismith Memorial Hall of Fame insieme ad altri due membri del Dream Team “originale”: Michael Jordan e “the Admiral” Robinson. stocktonspeechLa cerimonia fu una cosa abbastanza insolita perché Stockton si trovò, imbarazzatissimo, a tenere un discorso davanti alla sala gremita, mentre Jordan praticamente trasformò il suo discorso in una specie di show nel quale fece intendere di voler tornare sul parquet NBA. A fine 2013 è uscita la sua autobiografia tra lo stupore generale. Nessuno si sarebbe aspettato che quel ragazzo, così chiuso da mandare Malone ai microfoni per evitare di parlare, avrebbe mai pubblicato un’autobiografia. Dopo il suo ritiro all’NBA un personaggio come lui, che non parlava mai, è un po’ mancato. Un po’ per le caratteristiche tecniche, un po’ per il personaggio in sé.

Uno così non si era mai visto e, probabilmente, non si vedrà mai. La sua forza non era fare assist, e dire così di uno che ha il record di assist in carriera è quasi una pazzia, e non era neanche rubare palloni, ma la caratteristica che lo ha reso unico è stata quella di riuscire a far migliorare, in maniera quasi mostruosa, i suoi compagni. John Stockton da Spokane, Washington, quando fu chiamato al draft a Salt Lake City fu fischiato, ma è bastato poco tempo per trasformare quei fischi in scroscianti applausi. Sono bastati umiltà, silenzioso carisma ed intelligenza. Di gente così non ne fabbricano più.

Per Dunk NBA
Shedly Chebbi

Manute Bol, la speciale benedizione del Sudan del sud

Mauro Maialetti,

Per Dunk NBA.

Quando giocano in trasferta potrebbero risparmiare spedendolo via fax”.

Questo era il laconico commento di un tal Allan Stewart Königsberg, al tempo Woody Allen.

Ed era forse la prima cosa che ti piombava nell’encefalo quando lo vedevi : un gigante magrolino.

Altezza fuori dalla norma ma corporatura non robusta, quasi esile per un “uomo” da 231 centimetri.

Manute nasce nel 1962 vicino Gogrial, una cittadina di 40 000 anime nel Sud del Sudan.

Suo padre, anziano e importante “rappresentante” della tribù Dinka, lo chiamò Manute che significa “speciale benedizione”.

La sua straordinaria altezza non è casuale, anzi : tutta la famiglia (mamma 208 centimetri, padre 203) e la tribù stessa era composta da spilungoni.

Da ragazzino la sua unica mansione era  badare al bestiame (pecore), fondamentali per il sostentamento di tutta la tribù.

Il primo sport che provò da giovane fu il calcio. Esperimento logicamente fallito.

Il perché è abbastanza scontato da capire : un uomo con un’apertura di braccia da 2 metri e mezzo circa non è  proprio adatto per giocare a calcio, nemmeno come portiere.

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Cosi si cimentò nel basket del suo paese, dove all’inizio sperimentò l’odio razziale della maggioranze dei sudanesi del nord, fino a quando finì sul taccuino di coach Don Feeley, della “Fairleigh Dickinson University”, che lo convinse ad andare in America.

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“Non capivo assolutamente una parola. Uscivo pazzo, ogni volta pensavo stessero parlando di me”.

In queste sue poche parole è descritto tutto il disagio relativo alla sua ambientazione nella nuova realtà a stelle e strisce.

Venne scelto nel draft del 1985 dai Washington Bullets (con una media di 5 stoppate a partita in 80 partite disputate) dove giocò per 3 stagioni (1985-1988) per poi passare ai Golden State Warrior (per 2 anni 1988-1990) dove si scoprì che non sapeva solamente stoppare a canestro, ma qualche volta poteva anche provare dalla lunga distamza (20 triple totali, 6 durante una sola partita).


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Al termine del 1990 passò ai 76ers dove la sua popolarità divenne molto alta nonostante le sue prestazioni non erano propriamente da tramandare ai posteri.

Rimase a Philadelphia per 3 anni, gli ultimi tranquilli sotto il punto di vista degli infortuni e gli ultimi anni veri come atleta NBA.

La stagione 1993-1994 fu a tutti gli effetti una stagione nefasta per Manute : cambiò ben 3 squadre (Miami, Washington e Philadelphia) collezionando solo 14 partite.

Le sue fragili ginocchia lo tormentavano in continuazione causa la sua corporatura abnorme e l’anno successivo tornò ai Warriors.

Purtroppo con il passare del tempo la situazione non migliorava affatto, anzi peggiorava causa forti artriti che lo costrinsero ad abbandonare la sua carriera da cestista americano dopo una breve esperienza con i Florida Beach Dogs.

In NBA chiuse con una media di 2.6 punti, 4.2 rimbalzi, 0.3 assist, 3.3 stoppate.

Mise a referto 1599 punti, 2647 rimbalzi e 2086 blocchi totali,comparendo in 624 partite, divise fra le 10 stagioni NBA disputate.

E’ ancora secondo per media-stoppate durante una stagione (5,8) e quattordicesimo assoluto per stoppate totali in carriera NBA (2086).

Ha il singolare primato nell’essere l’unico giocatore della storia NBA ad aver collezionato piu stoppate che punti durante la sua carriera (2086 stoppate, 1599 punti).

Ultima esperienza con il basket fu proprio in Italia, piu precisamente a Forlì: fu contattato da coach Massimo Mangano che lo volle in squadra. Il suo arrivo scatenò immediatamente l’entusiasmo della piazza che fu subito quietato dopo le 2 soli apparizioni fatte dall’atleta e il conseguente taglio da parte della società.

Fu cosi che Manute chiuse definitivamente con il basket e tornò in Sudan col portafogli bello pieno: 10 anni di attività in NBA piu tutti gli innumerevoli compensi pubblicitari.

Piccola digressione sul Sudan : la sua patria, sia allora sia oggi, è tutt’altro che tranquilla: persiste una sanguinosa guerra civile che ha mietuto la bellezza di circa 2 milioni di vittime.

Il paese è diviso tra una parte settentrionale di arabi musulmani e una meridionale di neri cristiani e di altre fedi locali varie, continuamente perseguitati. I musulmani al potere tollerano e sostengono le persecuzioni ­, i massacri, schiavismo, allontanamento dai villaggi nei confronti della gente del sud e sono combattuti da gruppi ribelli, tra cui quello a cui appartengono i Dinka.

Nel frattempo, per Manute, le cose non vanno tanto bene.

Alcune voci mai confermate sostengono che spese molti soldi per finanziare i guerriglieri della sua tribù.

Inoltre un paio di attività nelle quali l’ormai ex cestista aveva investito ingenti somme vanno in bancarotta e viene addirittura perseguitato perché aveva rifiutato di convertirsi all’Islam.

Economicamente aiutò sempre la sua nazione sostenendo molte cause per essa e visitando spesso i campi profughi sudanesi, dove veniva accolto come un re.

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Causa soldi che stavano finendo e tranquillità non alle stelle, decise di tornare negli States.

Ma il governo del suo paese glielo impedì non concedendogli il visto d’uscita.

Fu accusato inoltre di sostenere i ribelli cristiani Dinka e non ottenne il visto se non con l’aiuto dei suoi sostenitori americani tra cui il senatore del Connecticut Joseph Lieberman, che raccolse fondi per permettere a Bol di stabilirsi in Egitto.

Dopo 6 mesi di trattative con i funzionari del consolato degli Stati Uniti, ed ottenuto lo status di rifugiato , Bol e la sua famiglia erano finalmente in grado di lasciare l’Egitto(dove gestì una scuola di basket frequentata da un rifugiato sudanese suo amico di nome Loul Deng, attuale giocatore dei Cleveland Cavaliers) e tornare negli Stati Uniti.

Non dimenticò mai la sua patria, che continuò ad aiutare economicamente e nel sociale: si adoperò con una fondazione (Sudan Sunrise)per migliorare il livello di istruzione del Sudan e si mise a disposizione per diverse giornate di beneficenza con lo scopo di raccogliere fondi per l’Africa e per il suo Sudan.

Muore  a Charlottesvile, il 19/06/2010 a causa di un’insufficienza renale acuta conseguente alla sindrome di Stevens-Johnson, infezione contratta in Africa durante uno dei suoi viaggi umanitari.

Per noi tutti, amanti di questo sport, resterà lo stoppatore per eccellenza, che non aveva bisogno di saltare per togliere la palla dal canestro. Una persona umile, semplice, che in cuor suo aveva un solo obiettivo: avere un sogno per se e per la sua gente africana.

Sogno che si è avverato.

“If everyone in the world was a Manute Bol, it’s a world I’d want to live in. He’s smart. He reads The New York Times. He knows what’s going on in a lot of subjects. He’s not one of these just-basketball guys”

Gia, proprio cosi.

He is not one of these just-basketball guys.

“Sir” Charles Barkley sei Suns ha detto praticamente tutto.

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Tyrone Bogues: un gigante di 158 centimetri

dumbarTyrone Curtis Bogues, per tutti semplicemente Muggsy, nasce a Baltimora, nel Maryland, il 9 gennaio del 1965. Tyrone studia alla Paul Laurence Dunbar High School di Baltimora, High School per la quale gioca, o meglio dispensa giocate sublimi, nei Dunbar Poets, la squadra di basket assieme ad altre future stelle dell’NBA: David Wingate, Reggie Williams ed al compianto Reggie Lewis. Sì, perché nonostante l’altezza, 158 centimentri scarsi, nel corpo di Tyrone c’è concentrato un talento innato. Con questi cinque in campo i Poets sembrano invincibili. Anzi lo sono. I Dunbar Poets sono così forti che nella stagione 1981-1982 hanno una striscia vincente di 29 partite, mentre nella stagione 1982-1983, l’ultima di Bogues all’High School, la striscia vincente è di 31-0, per un totale di 60 partite, sessanta, senza sconfitte.

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I Poets conquistano, e non poteva essere altrimenti, la prima pagina dell’USA Today, giornale che si contende con il Wall Street Journal la posizione di quotidiano a maggior diffusione degli USA, e Tyrone si trasferisce, con una borsa di studio, alla Wake Forest University che fa di tutto per avere nella propria squadra quel playmaker così piccolo, ma così divino. Nel 1986, quando ancora studia, e gioca, per la Wake Forest University viene convocato da Lute Olson, al tempo coach della Nazionale statunitense, per il Mondiale di Spagna. E’ qui che la carriera, e la vita, di Bogues ha una svolta. Esattamente durante Stati Uniti – Jugoslavia, nel girone F, che da alle prime due rappresentative (su sei presenti nel girone) la possibilità di giocare le semifinali.

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La Jugoslavia è riconosciuta come una delle migliori Nazionali di quegli anni ed in quell’anno aveva un giocatore che da li a poco sarebbe andato a giocare in NBA: Drazen Petrovic (MVP di quei mondiali, poi tragicamente scomparso a soli 27 anni). Petrovic era un giocatore che, a dispetto dei suoi 196 centimetri, faceva cose a una velocità fuori dal comune ed aveva un uno contro uno capace di lasciare sul posto tutti quelli trovava sulla sua strada. Olson, però, conosce i suoi giocatori e in particolare quel ragazzo di 21 anni che non è altissimo, anzi non è affatto alto, ma ha una velocità di mani e di gambe che gli permette di essere uno dei migliori, se non il migliore, difensore in uno contro uno della squadra e gli affida il compito, che per molti poteva essere ingrato, di marcare Petrovic. Quel giorno, Petrovic, non l’ha presa mai.Quel “piccoletto” dalle mani enormi e lo straripante carisma l’ha limitato così bene che Petrovic quel giorno ha realizzato soltanto 12 punti (la sua media punti a fine torneo sarà di 25.4). Gli USA porteranno a casa il titolo iridato, e non poteva essere altrimenti vista la quantità di giovani stelle presenti nella sua rosa. A questo punto per Tyrone l’NBA sembra essere questione soltanto di tempo, soprattutto perché deve ancora finire l’ultimo anno alla Wake Forest. Nel 1987 Bogues  fa parte dei Rhode Island Gulls, una squadra che milita nell’USBL (lega di basket estiva), arrivando alla finale di lega, persa per 103-99 contro i Miami Tropics.

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Dopo questa breve esperienza viene chiamato al Draft NBA, con la dodicesima scelta assoluta, dai Washington Bullets (gli odierni Wizards, ndr). Il Draft di quell’anno vede approdare in NBA giocatori del calibro di “the Admiral” Robinson, Scottie Pippen, Kevin Johnson e Reggie Miller. Ai Bullets trova come compagno di squadra Manute Bol, un centro sudanese di 231 centimetri che fanno di lui il giocatore più alto della lega e della storia dell’NBA. I due, che sono separati da qualcosa come 73 centimenti di altezza, figurano sulla copertina di molte riviste ed anche in qualche spot. A fine stagione, pur necessitando di un playmaker, i Bullets lasciano Bogues senza contratto. E qui possiamo intuire un’altra svolta nella carriera di Tyrone Bogues. Sì, perché il fatto che sia rimasto senza contratto fa si che gli Charlotte Hornets, nuova franchigia al primo anno di NBA, metta gli occhi su di lui. Tyrone non si fa scappare l’opportunità di essere protagonista in una nuova franchigia ed in men che non si dica firma per gli Hornets. 

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Bogues resta a Charlotte per 10 anni. Dieci anni in cui si fa notare, ed apprezzare, come uno dei playmaker più creativi e come uno dei migliori difensori della lega. 

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E’ proprio agli Hornets che si guadagna il soprannome di Muggsy, datogli da Alonzo Mourning. Pur non avendo medie punti altissime, e non potrebbe essere altrimenti visto che attaccare il ferro in ogni occasione con soli 158 centimentri non sarebbe stata una grande idea, Muggsy è universalmente riconosciuto come uno dei giocatori più divertenti e popolari della lega. La sua caratteristica principale, come già detto, è la creatività e la difesa. Con la maglia degli Hornets, infatti, ha una media assist incredibile: 13.5 assist serviti ogni 48 minuti passati sul parquet. Nel 1996 riesce anche a trovare il tempo per partecipare, insieme a Michael Jordan, Larry Bird, Charles Barkley, Erwing, Jeff Malone e tanti altri atleti NBA, alle riprese del film Space Jam, nel quale degli alieni gli rubano il talento.

jamNel 1997 gli Hornet sono costretti a lasciar partire Bogues verso i Golden State Warriors. Con i Warriors Bogues gioca due stagioni collezionando 95 presenze senza lasciare il segno del suo passaggio, vista anche il roster non proprio brillante di cui i Warriors disponevano in quel periodo. Le ultime due stagioni, giocate, Tyrone le passa a Toronto, dove trova un buon roster con gente come Vince Carter. Dopo aver firmato, e mai giocato, con i Knicks e con i Mavericks, Muggsy decide che è ora di smettere con il basket giocato e lascia la scena. Dopo essersi preso un periodo di pausa dal basket Bogues torna, questa volta per allenare. Un destino segnato il suo visto che in campo, con il suo carisma e la sua spiccata personalità, riusciva ad essere un allenatore aggiunto. 2005-08-04-inside-boguesGli viene affidata la squadra femminile di Charlotte, le Charlotte Sting, che militano in WNBA. Dopo due stagioni lascia la guida tecnica delle Sting per trasferirsi nella NCAA, più precisamente per ricoprire il ruolo di allenatore alla United Faith Christian Accademy. Ruolo che ancora oggi ricopre. faith boguesTyrone Bogues, nonostante durante la sua carriera, mondiale a parte, non abbia vinto titoli, è stato, e per molti lo è sempre, il personaggio più grandioso che il basket NBA abbia mai messo in mostra. Certo di “piccoletti” ce ne sono stati, e ce ne sono, basti ricordare Earl Boykins, alto a malapena 165 centimetri e Spudd Webb, che con i suoi 168 centimetri vinse la gara di schiacciate nel all-star game del 1986, ma Muggsy è stato la dimostrazione che si può essere grandi anche a 158 centimetri da terra. Si può essere grandi in tanti modi. Lui lo era, e lo è, per il carisma, per la tecnica e il modo in cui riusciva a fermare i giganti. Sono ben 39 le stoppate in carriera per Bogues. Molto probabilmente se Olson, nell’estate del 1986, non si fosse preso il rischio di mettere quel ragazzo, che a mala pena riusciva a farsi vedere tra i suoi grandi e grossi compagni, in marcatura, tra lo stupore e le critiche di, quasi, tutti in marcatura su Petrovic non saremmo qui a parlarne.