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John Stockton: sangue freddo e mano calda

John Houston Stockton nasce a Spokane, Washington, il 26 marzo 1962. John studia, e gioca, alla Gonzaga Prep High School, una scuola privata, cattolica e gesuita, istituita a Spokane nel 1887 da Giuseppe Cataldo, un gesuita italiano in missione in America.

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Denotando fin dalla giovane età un carattere timido e, a tratti, schivo, Stockton si mette in mostra per la sua capacità di sfruttare al meglio le caratteristiche dei suoi compagni. Finita l’High School decide di rimanere a Spokane, vicino alla famiglia, continuando gli studi presso la Gonzaga University. Nei quattro anni di college, nei quali gioca con la squadra della Gonzaga, i Bulldogs, mette in mostra tutte le sue capacità tecniche e mentali. Sì perché Stockton non è un gigante, è alto 185 centimetri e pesa 79 kili, e non ha una grande fisicità, ma ha tre grandi doti: sa mettere i compagni in condizioni di rendere al 100%, ha un tiro da 3 punti estremamente preciso e legge il gioco come nessun’altro.

Nel 1984, finito il college, viene selezionato per un trial che la Nazionale degli USA ha organizzato per selezionare il roster che affronterà le Olimpiadi di Los Angeles. Stockton alla fine non verrà selezionato, ma in questo trial ha incontrato una persona che, soltanto pochi anni dopo, cambierà la sua vita per sempre. Quella persona è Karl Malone, che con lui diventerà “il postino”.

Sempre nel 1984 gli Utah Jazz lo scelgono con la sedicesima scelta assoluta. La scelta lascia tutti un po’ perplessi. Detto così, parlando conoscendo come andrà a finire, sembra una cosa strana, al limite della blasfemia. I tifosi dei Jazz, che si erano radunati nella piazza principale di Salt Lake City per seguire il draft, che quell’anno proponeva tra gli altri Michael Jordan, sono così perplessi che fischiano la scelta dei dirigenti dei Jazz. Stockton però non è un tipo che si lascia abbattere. Il suo carattere chiuso è in grado di agire da corazza nei momenti più difficili.

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Le buone prestazioni della stagione 1984-1985 fanno ricredere la maggior parte degli “Stockton-scettici”. Ma la svolta decisiva avviene con il Draft del 1985. A dire il vero la svolta della sua carriera era già iniziata, ad insaputa sua e del mondo intero, durante il Trial del 1984. Sì perché nel 1985 i Jazz hanno la tredicesima scelta assoluta e la sfruttano chiamando Karl Malone. Con lui John lega molto, a tal punto che diventerà uno dei suoi migliori amici. La loro intesa è così forte che i Jazz, che fino a quel periodo non erano una squadra molto quotata, con loro in campo centrano sempre i playoff, arrivando spesso alla finale di conference.

Nel 1992 ci sono le Olimpiadi, ma prima di arrivare a Barcellona gli USA si devono qualificare. Per farlo la Nazionale statunitense deve affrontare il Campionato Americano di Pallacanestro, sarebbe più corretto chiamarlo Panamericano visto che vi partecipano Nazionali del Nord, del Centro, e del Sud America. Il torneo di fatto è una formalità poiché gli USA hanno deciso di schierare il “Dream Team“, formato dai più forti giocatori NBA. Il roster statunitense è così composto: Laettner (chiamato poi nel Draft del 1992 dai Minnesota Timberwolves, e già 2 volte campione NCAA), “the Admiral” Robinson (San Antonio Spurs), Erwing (New York Knicks), Larry Bird (Boston Celtics), Scottie Pippen (Chicago Bulls), Michael Jordan (Chicago Bulls), Clyde Drexler (Portland Trail Blazers), Karl Malone (Utah Jazz), John Stockton (Utah Jazz), Chris Mullin (Golden State Warriors), Charles Barkley (Philadelphia Seventysixers), “Magic” Johnson (che si era ritirato, ma poi richiamato a furor di popolo).

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John Stockton ha così il primo, vero, grande riconoscimento ai suoi meriti e al suo impegno. Inutile dire che gli Stati Uniti si qualificano per Barcellona vincendo tutte la partite, con uno scarto medio di 51,4 punti a partita. Anche le Olimpiadi filano via senza particolari problemi fino alla finale. In finale il Dream Team ritrova la Croazia di Petrovic, già affrontata, e battuta, nel girone. La musica, però, non è la stessa. Petrovic ci tiene a fare bene e gioca divinamente, portando, per qualche momento, i suoi in vantaggio, poi, però, la qualità della rosa a dispozione di Chuck Daly (allenatore all’epoca dei New Jersey Nets) viene fuori e gli USA diventano Campioni Olimpici con il risultato di 76-127. 061412_Dream_Team_575x270-panoramic_17717C’è un particolare: Stockton, che è uno che non si fa mai notare, chiama palla quando mancano pochi secondi alla sirena, i compagni lo accontentano, credendo che voglia cercare di segnare l’ulteriore allungo, ma lui non fa una piega fermandosi e palleggiando, acquisendo così il diritto di portarsi a casa il pallone della finale.

Dopo quattro anni, ed altrettanti play-off che non hanno portato l’agognata finale, è di nuovo tempo di Olimpiadi. Anche questa volta gli USA decidono di schierare il miglior roster possibile. Il roster, privo di MJ e molti giocatori ritirati, è composto da: Charles Barkley (Phoenix Suns), Grant Hill (Detroit Pistons), Penny Hardaway (Orlando Magic), “the Admiral” Robinson (San Antonio Spurs), Scottie Pippen (Chicago Bulls), Mitch Richmond (Sacramento Kings), Reggie Miller (Indiana Pacers), Karl Malone (Utah Jazz), John Stockton (Utah Jazz), Shaquille O’Neal (Orlando Magic), Gary Payton (Seattle SuperSonics), Hakeem Olajuwon (Houston Rockets). L’allenatore, come se una squadra così ne avesse bisogno, è Lenny Wilkens, ex play di Seattle, Cleveland e Portland, al tempo allenatore degli Atlanta Hawks. Anche questa volta le Olimpiadi filano via in un batter d’occhio e gli Stati Uniti si laureano nuovamente campioni Olimpici sotto gli occhi del pubblico di casa. 1996L’avversario in finale è la Jugoslavia di Divac e Danilovic, praticamente l’altra metà della squadra affrontata in finale 4 anni prima. Stockton in finale risulta uno dei migliori, seppur non fosse partito in quintetto, servendo 7 assist. Anche questa volta Stockton chiama palla a pochi secondi dal termine e anche questa volta non la gioca, ma la palleggia, in modo da potersela portare a casaJohn non è il tipo che si lascia trasportare dalle emozioni e per accorgersene basta vedere le immagini del termine delle due finali olimpiche. Sì perché in entrambe le occasioni, dopo il suono della sirena, stringe il pallone sotto il braccio, come se nulla fosse, batte qualche “cinque” a compagni ed avversari e, mentre tutti fanno festa, lui sta li a guardare come un qualsiasi tifoso che, vista eliminare la propria squadra, ha deciso di rimanere per vedere la finale.

stockton-MaloneIl tempo passa e Stockton resta, nonostante le lusinghe di squadre che puntano all’anello, ai Jazz. La stagione ’96-’97 rappresenta il culmine del miglioramento di Stockton e dei suoi compagni, quest’ultimo dovuto, oltre che al lavoro in allenamento, alla presenza proprio di Stockton. La stagione fila via abbastanza bene e, al termine della regoular season, Karl Malone viene premiato come MVP. Rispetto agli anni precedenti la candidatura alla finale dei Jazz sembra essere molto più seria, vista la grande esperienza accumulata. E così è stato. Utah, infatti, fa fuori le due squadre di Los Angeles, prima i Clippers poi i Lakers, e gli Houston Rockets, vincendo la conference e conquistando la finale playoff. La finale però non è di quelle semplici poiché ad attendere Stockton e Malone ci sono i Bulls di Jordan, Pippen e Rodman e i Jazz non riescono a tenere il passo degli avversari e perdono (4-2) la serie finale.

L’anno successivo, nonostante la sconfitta difficile da buttar giù, in finale, Stockton riesce a trascinare di nuovo i suoi in finale, battendo i Rocktes (3-2), gli Spurs (4-1) ed i Lakers (4-0). La finale è ancora contro i Bulls. Questa volta, però, i Bulls arrivano da una regoular season poco esaltante e non sembrano così imbattibili, visto anche che in quest’occasione Utah può sfruttare il vantaggio del fattore campo. I Jazz non vanno mai in seria difficoltà e, anche se la serie è di 3-2 a favore dei Bulls, la vittoria non sembra un’utopia. Ma, come nel peggiore degli incubi, 1998-chicago-bulls-vs-utah-jazz-nba-finalsle cose non vanno mai come i protagonisti vorrebbero. In gara 6, che sarebbe stata decisiva in caso di sconfitta dei Jazz, Utah sta vincendo 86-85 e, visti gli infortuni rimediati da qualche giocatore dei Bulls, Pippen in particolare, la possibilità di giocarsi tutto in gara 7 sembra essere una buona occasione. Ma succede una cosa incredibile: quando mancano 6,6 secondi dal termine Karl Malone, che avrebbe potuto benissimo proteggere palla facendo scorrere i secondi, si fa scippare il pallone da Michael Jordan, che attacca il canestro e segna. Sul Delta Center cala il silenzio, la vittoria sembrava fatta. Il tempo per recuperare ci sarebbe, mancano 5,2 secondi alla sirena, e coach Sloan chiama il time out. Sloan ha le idee ben chiare sul da farsi, conosce i suoi. Conosce soprattutto l’efficacia del gioco a 2 di Stockton e Malone, ma il tempo potrebbe non bastare e non vuole sprecare l’ultimo tiro. Al ché guarda i suoi e dice: “liberate la tripla a John”. Stockton è un gran tiratore, per certi versi è l’unico giocatore dei Jazz, e probabilmente dell’NBA, a cui affidare un tiro decisivo così importante senza farlo esaltare in caso di successo e, soprattutto, senza che si abbatta in caso di insuccesso. Lo schema funziona, anche se Stockton non ha tutta quella libertà che Sloan si sarebbe aspettato, d’altronde i Bulls sanno bene le capacità di quel computer con la maglia numero 12, lui però non può far altro che tirare, ad una prima occhiata, infatti, i suoi compagni non avevano fatto alcun movimento ed erano tutti marcati.

Il Delta Center trattiene il fiato, in un silenzio irreale, da quando il pallone si stacca dalla mano, spesso fatata, di Stockton fino a che essa termina la sua corsa, mestamente, sul ferro. Tanti si sarebbero messi le mani nei capelli, avrebbero mostrato platealmente la propria incredulità, ma non Stockton. Non John Stockon da Spokane. La sua espressione resta la stessa, come l’anno precedente ad Atlanta e 5 anni prima a Barcellona. Non mostra le sue emozioni. Anche questa volta i Jazz ci sono andati ad un passo, ma l’anello è tornato sulle dita di Jordan, Rodman e Pippen come l’anno precedente, come due anni prima. Negli anni successivi, pur partecipando sempre ai playoff, i Jazz non riescono a ripetersi non andando oltre al secondo turno. Al termine della stagione 2002-2003 Stockton decide di lasciare il parquet. Ma, come nel suo stile, rinuncia alla classica conferenza stampa, preferendo un semplice comunicato stampa degli Utah Jazz.

john-stockton-statueDi lui, dopo il ritiro, restano i numeri. Numeri pazzeschi, al di là di ogni immaginazione. Detiene, infatti, ben 4 record assoluti NBA: record di assist realizzati in una stagione (1164 nella stagione 1990-1991), record di assist realizzati in carriera (15806), record di palle rubate in carriera (3265), miglior media assist in una stagione (14,54 nel 1989-1990), maggior numero di assist in una partita (24 contro i Lakers il 17 maggio 1988, record condiviso con Magic Johnson) ed ha la seconda miglior media assist in carriera (10,51, secondo solo a Magi Johnson che di assist ne ha 11,19). Soprattutto il record di maggior numero di assist in carriera è di quelli che fanno venire i brividi. E’ un numero spaventoso perché, mediamente, un giocatore che mira a quel record arriva a 35/36 anni e pensa: “forse se gioco altri 5/6 anni ad altissimi livelli ce la faccio ad avvicinarlo”. Detiene, inoltre, il record per la permanenza più lunga, e continuativa, in un’unica franchigia NBA, avendo giocato, sempre, con i Jazz dalla stagione 1984-1985 alla stagione 2002-2003.

Dopo aver chiuso con il basket giocato, per un brevissimo periodo, ha allenato il Paok Salonicco, ma decise di interrompere la sua avventura da allenatore per ritirarsi a vita privata. Nel 2009 arriva, l’inevitabile, inserimento nella Naismith Memorial Hall of Fame insieme ad altri due membri del Dream Team “originale”: Michael Jordan e “the Admiral” Robinson. stocktonspeechLa cerimonia fu una cosa abbastanza insolita perché Stockton si trovò, imbarazzatissimo, a tenere un discorso davanti alla sala gremita, mentre Jordan praticamente trasformò il suo discorso in una specie di show nel quale fece intendere di voler tornare sul parquet NBA. A fine 2013 è uscita la sua autobiografia tra lo stupore generale. Nessuno si sarebbe aspettato che quel ragazzo, così chiuso da mandare Malone ai microfoni per evitare di parlare, avrebbe mai pubblicato un’autobiografia. Dopo il suo ritiro all’NBA un personaggio come lui, che non parlava mai, è un po’ mancato. Un po’ per le caratteristiche tecniche, un po’ per il personaggio in sé.

Uno così non si era mai visto e, probabilmente, non si vedrà mai. La sua forza non era fare assist, e dire così di uno che ha il record di assist in carriera è quasi una pazzia, e non era neanche rubare palloni, ma la caratteristica che lo ha reso unico è stata quella di riuscire a far migliorare, in maniera quasi mostruosa, i suoi compagni. John Stockton da Spokane, Washington, quando fu chiamato al draft a Salt Lake City fu fischiato, ma è bastato poco tempo per trasformare quei fischi in scroscianti applausi. Sono bastati umiltà, silenzioso carisma ed intelligenza. Di gente così non ne fabbricano più.

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Shedly Chebbi