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Utah Jazz, la dirigenza valuta Messina per la panchina!

La panchina vacante degli Utah Jazz potrebbe presto tingersi di azzurro: la dirigenza della franchigia tra cui Dennis Lindsey ed il front-office Justin Zanick è molto attratta dall’idea di riportare Messina negli States, dopo quanto fatto a Mosca, nel CSKA!

Ettore Messina e Mike Brown ai tempi dei Los Angeles Lakers.
Ettore Messina e Mike Brown ai tempi dei Los Angeles Lakers.

I suoi detrattori però lo accusano di spremere troppo i giocatori per avere successo in NBA, come riporta Marc Stein della ESPN: dopo Tyron Corbin però la candidature di Messina è forte, ed è avvallata anche dai fans della squadra che credono sia pronto dopo essere stato assistente coach dei Lakers.
Riuscirà il nostro Messina nel grande salto nella NBA? Le carte in regola ce le ha tutte: staremo a vedere come si orienteranno i Jazz!

@MarkTarantino89

Karl Malone: il postino suona sempre due volte

Karl Anthony Malone nasce a Bernice, una frazione di Summerfield in Louisiana, il 24 luglio del 1963 in una famiglia di contadini. Fin da bambino vive, molto da vicino, i problemi della segregazione razziale, che affliggevano il sud degli Stati Uniti d’America: a suo nonno fu fatto capire, più di una volta ed in maniera poco amichevole, che probabilmente non era il caso di ampliare l’azienda di famiglia.

karl-maloneUltimo di nove figli, Karl, passa la sua infanzia in una fattoria a Bernice, dove viveva con i suoi fratelli e la madre. Suo padre, che si è sposato per la seconda volta quando Karl era un bambino, si suicidò quando Karl aveva 14 anni, ma la madre glielo ha comunicato soltanto nel 1994. Nella fattoria ha avuto modo di sviluppare il suo fisico, pazzesco, tagliando, a colpi di accetta, alberi ed andando a caccia. Malone frequenta la Summerfield High School, il liceo della sua contea, e gioca nella squadra di basket, portando il suo liceo alla vittoria di tre titoli consecutivi. A questo punto Malone è uno dei prospetti più interessanti della sua generazione e Eddie Sutton, allenatore della squadra dell’Univesity of Arkansas, fa di tutto per averlo con sé, ma dopo una lunga riflessione decide, in accordo con la famiglia, di iscriversi alla Louisiana Tech karl malone 2University per restare vicino alla famiglia. Malone, però, il primo anno non si allena neanche: I suoi voti, infatti, sono troppo voti per gli standard dell’università e non gli viene permesso di unirsi alla squadra di basket. Ammissione che arriva l’anno successivo. Con l’allenatore italo-americano Andy Russo, che è decisivo nella sua carriera in quanto gli da molti consigli su come muoversi da ala forte in fase difensiva, e Karl Malone i Bulldogs centrano, per la prima volta nella storia del college, la qualificazione al torneo NCAA. Per tutti gli anni del college Malone viene selezionato nell’All-Southland, selezione che raccoglie tutti i migliori giocatori collegiali del sud degli Stati Uniti.

maloneNel 1985 si rende eleggibile per il Draft NBA, insieme a campioni come Patrick Ewing, Chris Mullin, Arvydas SabonisManute Bol. Malone viene scelto, con la tredicesima chiamata assoluta, dagli Utah Jazz, squadra che stava cercando il compagno ideale per John Stockton, promettente playmaker pescato al Draft dell’anno precedente. Mai scelta fu più azzeccata. I due si erano conosciuti nel 1984, quando furono chiamati per uno stage pre-olimpico indetto da Bobby Knight, e svilupparono, già in quelle poche settimane, una grande amicizia ed intesa sul campo. A dir la verità Malone sarebbe dovuto finire ai Dallas Mavericks, ma la squadra di Dallas decise all’ultimo di selezionare, con la scelta numero 8, Detlef Schrempf, ala tedesca, rendendo così vano l’acquisto fatto da Malone: un appartamento alla periferia di Dallas. Alla sua prima intervista, subito dopo il draft, fece vedere subito le sue origini ‘provinciali’, dicendo: “Sono molto contento di andare a giocare nella città di Utah“, pensando che il nome ‘Utah’ fosse riferito al nome della città e non allo stato in cui si trova Salt Lake City.

Con la maglia dei Jazz fa vedere grandi cose e si guadagna il soprannome di ‘Postino’ (Mailman), grazie anche a John Stockton, capace dimalone_rookie liberarlo sotto canestro, facendo in modo che lui debba soltanto saltare ed appoggiare la palla, consegnandola proprio come una cartolina postale. Alla prima stagione in NBA, Malone, si classifica al terzo posto nella classifica Rookie of the Year, dietro a Xavier McDaniel (Seattle SuperSonics) e Patrick Ewing (New York Knicks), viene inserito nel primo quintetto Rookie e trascina i suoi Jazz ai play-off, ai quali, per uno strano incrocio del destino, furono eliminati al primo turno dai Dalla Mavericks.

karl-malone 3Malone, come tutti i più grandi sportivi, ha una maniera di allenarsi maniacale, a tratti compulsiva, ed ogni giorno dell’anno, feste comprese, lui si allena sollevando pesi, arrivando anche a sollevare più di 200 kili alla volta, in estate scende dalle ripide prateria dello Utah simulando lo scivolamento difensivo o corre con una specie di paracadute legato in vita. Il suo unico scopo è quello di migliorare la sua resistenza fisica, che pur essendo straordinaria a lui non sembra così buona. Il suo fisico è così imponente e ben definito che sua moglie, alle partite, riceve offerte da centinaia di dollari da parte di facoltose signore che vorrebbero toccare i bicipiti di Karl.

Il tempo passa e migliora le qualità di Malone, così come la sua intesa con Stockton, e nonostante la squadra non riesca ad arrivare alle finali NBA, Karl, inizia ad incantare il pubblico e gli addetti ai lavori, conquistando l’All-NBA Second Team e All-Defensive Second Team nel 1988, tutte le convocazioni all’All-Star Game, dal 1988 al 2002, vincendo due volte l’MVP dell’All-Star game nel 1989 e nel 1993 (a pari merito con l’amico Stockton), l’All-NBA First Team dal 1989 al 1999, l’All-NBA Second Team nel 2000 e l’MVP della regoular season nel 1997 e nel 1998. In mezzo collezione due Ori Olimpici, con il Dream Team, sia quello originale del 1992, che vince anche i Campionati Americani, che quello del 1996.

Il punto più alto della sua carriera, oltre agli ori ottenuti con la Nazionale, lo tocca nel 1996-1997 e nel 1997-1998, quandomalone_with_trophy_display_image gli Utah Jazz, trascinati dai suoi punti, raggiungono le finali NBA. Nella prima, quella del ’97, Malone, forte del suo primo titolo MVP, ma la storia è chiusa in partenza. I Bulls sfruttano al meglio il fattore campo e la presenza di Michael Jordan, Rodman e Pippen fa la differenza e la serie termina sul 4-2 per Chicago.

Nella seconda la storia ha dell’incredibile. I Jazz hanno il vantaggio del fattore campo e, nonostante siano in svantaggio per 3-2 nella serie, la vittoria non sembra essere una cosa tanto campata in aria, visto che i Bulls sono reduci da una stagione altalenante e la partita del Delta Center sta vedendo i Bulls perdere pezzi, su tutti Scottie Pippen, che sembrava infortunato. A 6,6 secondi dalla fine, sul risultato di 86-palla finale malone85, maturato nonostante l’arbitraggio discutibilmente a favore dei Bulls, succede l’incredibile: Malone riceve in post, ma commette l’ingenuità di scoprire il pallone, Jordan ringrazia, lo scippa e va in contropiede e segna il canestro dell’87-85. Coach Sloan chiama il time out, ma lo schema non riesce e Stockton è costretto a cercare la tripla, il suo tiro finì sul ferro ed i Bulls potettero così festeggiare. E’ strano il destino. I due uomini che hanno portato i Jazz così in alto sono stati anche una delle cause della sconfitta in finale. Nonostante tutto i tifosi dei Jazz non si sono mai sentiti di criticare Malone per aver perso quel pallone, lui aveva fatto in modo che, per due stagioni consecutive, loro potessero sognare ad occhi aperti. Già, perché quel ragazzone di 206 centimetri per 116 kili, che pensava che Utah fosse il nome della città, era entrato nei cuori tutti i tifosi di Salt Lake City, grazie alla sua voglia di migliorarsi e di far migliorare tutta la franchigia.

Negli anni successivi ‘l’ufficio postale’, Stockton metteva i timbri e Malone partiva a consegnare, continuò a far bene centrando i play-off, stockton-Malonesenza però riuscire a tornare in finale. Nell’estate del 2003, dopo il ritiro di John Stockton, Malone si trasferisce ai Lakers per quella che è la sua ultima stagione da giocatore. Nonostante l’età, il suo arrivo a Los Angeles fu accolto con grande entusiasmo, tanto che Magic Johnson, ultimo possessore della maglia numero 32, avrebbe voluto fortemente che Malone la indossasse, ma, in segno di rispetto, declinò l’offerta e si mise sulle spalle il numero 11, numero che lo ha accompagnato in entrambe le Olimpiadi. La sfortuna, però sembra accanirsi su Karl, che è costretto a parte della stagione a causa di un infortunio. Lui soffre questa situazione perché in tutta la sua carriera non aveva mai subito infortuni degni di nota, tanto da aver saltato soltanto 10 partite fino a quel momento. Nonostante l’età fa vedere di che pasta è fatto, contribuendo alla conquista della finale NBA, facendo registrare una tripla doppia contro gli Spurs, diventando il più vecchio giocatore a farlo e segnando 30 punti, contro i Rockets, diventando il secondo giocatore più anziano, dopo Kareem Adbul-Jabbar, a farlo ai play-off.

alg-basketball-karl-malone-jpgArrivati alla finale, però, i Lakers di Bryant, O’Neal e Payton devono arrendersi ai sorprendenti Detroit Pistons. Anche questa volta Malone ci è andato vicino, ma non ce l’ha fatta e si ritira con l’amaro in bocca e la consapevolezza che, probabilmente, la sua carriera ed i suoi numeri avrebbero meritato molto di più che un semplice anello. Chiude, infatti, la sua carriera con la bellezza di 36928 punti, al momento del ritiro era il secondo miglior marcatore assoluto alle spalle di Kareem Abdul-Jabbar, che però ha una media punti per partita più bassa, ed il miglior marcatore di sempre per franchigia, 36374 punti con gli Utah Jazz. Di Malone oggi ci restano i suoi record. Record che lo hanno portato ad essere inserito, nel 2010, nella Naismith Hall of Fame e che hanno fatto in modo che oggi fuori dal Delta Center ci sia una statua che lo ritrae mentre schiaccia, con accanto la statua dell’amico di sempre Stockton intento a servigli l’assist.

Attualmente detiene la bellezza di cinque record individuali: record di tiri karl malone statualiberi tirati (13188), record di tiri liberi realizzati (9787), record di rimbalzi difensivi (11406, record limitato dal fatto che i rimbalzi offensivi vengono introdotti nel conteggio dopo la stagione 1973-1974), record di assist forniti da ala grande (5248), record di palle recuperate da ala grande (2085). Nel 1996, quando ancora era in attività, ed al top della sua straordinaria carriera, è stato inserito tra i 50 migliori giocatori NBA di tutti i tempi ed il 24 marzo del 2006 gli Utah Jazz hanno deciso di rendere omaggio al grande campione, ritirando la maglia numero 32 con una bella cerimonia. L’ultima volta l’abbiamo visto all’All-Star Game del febbraio 2014, quando è stato componente del ‘Team Durant’, formato, ovviamente, da Kevin Durant e la stella WNBA Skylar Diggins, che ha partecipando, perdendo in finale, alla Shooting Star Competition.

Certe volte la sorte vuole che una decisione presa all’ultimo mento, in questo caso la scelta dei Dallas Mavericks di scegliere Detlef Schrempf, possono cambiare il corso degli eventi e regalarci delle pagine di storia sportiva. Chissà cosa sarebbe successo se Malone non avesse mai avuto la possibilità, se non con il Dream Team, di giocare con John Stockton. Chissà se sarebbe diventato comunque il postino. La cosa non ci interessa, noi ci prendiamo la storia, con molto piacere, così come è venuta ed è bello pensare che quel ragazzino che tagliava gli alberi, in un paese dove il numero della popolazione del bestiame supera quella degli umani, sia stato per anni il porta lettere dell’NBA. Il postino suona sempre due volte, ma se cercavi di fermare la ‘consegna’ di Malone, potevi star pur certo che avrebbe ‘suonato’ uno squillo aggiuntivo.
Per Dunk NBA
Shedly Chebbi
(@shedly7)

Jazz @ Cavaliers 79-99 : Prima tripla-doppia in carriera per Irving (video)

E’ ancora un Kyrie Irving stellare a giudare i Cavs alla vittoria.

L’australiano mette a referto la sua prima tripla-doppia assoluta in carriera e con 21 punti, 10 rimbalzi e ben 12 assist regola i Jazz.

kyrie-irving (1)Partita subito in salita per la squadra di casa con gli ospiti avanti di 7 punti a fine primo quarto (20-27).

Cleveland reagirà dopo l’intervallo, da inizio terzo quarto, con Tristan Thompson (18 pta, 14 rbz, 2 ass) e Spencer Hawes (13 pts, 16 rbz, 2 ass) entrambi in doppia-doppia.

Best-scorer per i Jazz è stato Gordon Hayward (18 pts, 7 rbz, 7 ass) seguito da Richard Jefferson (13 pts, 4 rbz)

Per i Cavs non ha preso parte alla sfida Anthony Bennett che ha lamentato un dolore al ginocchio destro. La prima scelta dovrebbe rientrare per la prossima sfida.

Restano fuori Varejao, Waiters e Miles.

“To have my first triple-double at home makes it that much more special. A couple fans were yelling that I needed three more rebounds, and I was like, ‘I got you guys, I got you. Don’t worry.’ I always appreciate their support.”

Queste le parole a fine gara di un soddisfatto Irving protagonista, suo malgrado, di un’invasione di campo in suo favore : un giovane supporters dei Cavs è entrato in campo andando verso di lui.

E’ stato immediatamente fermato ed arrestato.

 

UP  Next for the Jazz : Domenica @ Indiana

UP Next for the Cavs : stanotte @ Memphis

 

VIDEO :

 

Celtics @ Jazz 98-110 : Orgoglio Utah, Boston alla quinta sconfitta consecutiva (video)

Dopo essere stato fuori per 3 gare, il rientro di Derrick Favors (20 pts, 4 rbz, 1 ass) coincide con un’orgogliosa vittoria dei Jazz in casa contro i Celtics che permette ai padroni di casa di lasciare i Lakers all’ultimo posto della Western Conference.

Derrick-Favors

Gara subito in discesa per gli uomini di coach Corbin che gia a fine primo tempo sono avanti di 13 punti.

Nella seconda parte Boston cerca di rimanere a galla grazie alla regia di Rajon Rondo (18 pts, 3 rbz , 10 ass) e al contributo di Jeff Green (21 pts, 4 rbz) e di Kelly Olynyk (21 pts, 8 rbz, 4 ass) ma i Jazz grazie a Favors, Alec Burks (21 pts, 1 rbz, 4 ass) e ai 19 punti di Marvin Williams riescono a chiudere la gara senza troppe difficoltà.

Per Boston serataccia al tiro per Brandon Bass (2/11) mentre erano assenti per infortunio Jared Sullinger (commozione cerebrale) e Avery Bradley (distorsione alla caviglia).

 

 

UP Next for the Celtics : domani VS Atlanta

UP Next for the Jazz : domani  vs Phoenix

 

 

VIDEO :

Jazz @ Trail Blazers 94 – 102: il solito Lillard stende gli spenti Jazz (video)

Con una straordinaria prestazione del solito Lillard, i Portland Trail Blazers portano a casa la vittoria contro gli Utah Jazz: finisce 102 – 94 per i padroni di casa.

Portland Trail Blazers v Dallas MavericksNonostante l’assenza di Lamarcus Aldridge (causa problema ad una coscia), il play trascina la squadra è realizza ben 28 punti e gioca un quarto periodo da copertina. Buono anche il supporto di Matthews (24 punti) e di Lopez che chiude con una doppia-doppia da 12 punti e 18 rimbalzi. Per i Jazz invece, Kanter mette a referto 25 punti (carrer-high pareggiato) e Burke ne mette altri 21 con 7 assit. Con questa vittoria i Blazers agganciano così i Rockets al terzo posto insieme ai Clippers.

http://www.youtube.com/watch?v=MbM6YEHg8b

Per Dunk NBA
Mario Ramogida (@marioramogida)

Spurs, Rockets, Blazers e Heat, tutti match semplici a scapito di sorprese

Sembra una notte tranquilla quella che sta per arrivare in Nba, ma le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Infatti le big della lega, affronterrano delle franchigie in totale difficoltà o che puntano semplicemente al tanking. Partiamo dagli Spurs, che affronteranno al T & T Center i Bobcats. San Antonio vuole approfittare della sconfitta di Oklahoma per riavvicinarsi al primo posto nella conference, Charlotte ancora ottava ad Est, ma con un record ampiamente negativo, è sicuramente l’avversaria adatta per l’obiettivo di Popovich e company. Altra gara ad Ovest, quella di Portland fra i Trail-Blazers e i T-Wolves, con i rosso-neri che non stanno vivendo un momento propriamente positivo e la sconfitta di Indiana lo dimostra. Golden State-Phoenix è sicuramente la sfida più allettante. Sesta contro Settima della Western, con i Warriors che hanno approfittato delle due sconfitte dei Suns per ri-sorpassare in classifica i texani. Houston sulla carta sembra avere la partita più semplice affrontando al Toyota Center i Bucks, già vincenti però in stagione contro gli uomini di McHale. L’unica sfida che si giocherà ad Est sarà quella di Miami fra gli Heat e i Jazz, Lebron vuole approfittare della sconfitta notturna di Durant per riprendersi il trono che gli compete… quello di Mvp.

James
Le altre gare della notte:
Memphis-Atlanta
Denver-Detroit

John Stockton: sangue freddo e mano calda

John Houston Stockton nasce a Spokane, Washington, il 26 marzo 1962. John studia, e gioca, alla Gonzaga Prep High School, una scuola privata, cattolica e gesuita, istituita a Spokane nel 1887 da Giuseppe Cataldo, un gesuita italiano in missione in America.

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Denotando fin dalla giovane età un carattere timido e, a tratti, schivo, Stockton si mette in mostra per la sua capacità di sfruttare al meglio le caratteristiche dei suoi compagni. Finita l’High School decide di rimanere a Spokane, vicino alla famiglia, continuando gli studi presso la Gonzaga University. Nei quattro anni di college, nei quali gioca con la squadra della Gonzaga, i Bulldogs, mette in mostra tutte le sue capacità tecniche e mentali. Sì perché Stockton non è un gigante, è alto 185 centimetri e pesa 79 kili, e non ha una grande fisicità, ma ha tre grandi doti: sa mettere i compagni in condizioni di rendere al 100%, ha un tiro da 3 punti estremamente preciso e legge il gioco come nessun’altro.

Nel 1984, finito il college, viene selezionato per un trial che la Nazionale degli USA ha organizzato per selezionare il roster che affronterà le Olimpiadi di Los Angeles. Stockton alla fine non verrà selezionato, ma in questo trial ha incontrato una persona che, soltanto pochi anni dopo, cambierà la sua vita per sempre. Quella persona è Karl Malone, che con lui diventerà “il postino”.

Sempre nel 1984 gli Utah Jazz lo scelgono con la sedicesima scelta assoluta. La scelta lascia tutti un po’ perplessi. Detto così, parlando conoscendo come andrà a finire, sembra una cosa strana, al limite della blasfemia. I tifosi dei Jazz, che si erano radunati nella piazza principale di Salt Lake City per seguire il draft, che quell’anno proponeva tra gli altri Michael Jordan, sono così perplessi che fischiano la scelta dei dirigenti dei Jazz. Stockton però non è un tipo che si lascia abbattere. Il suo carattere chiuso è in grado di agire da corazza nei momenti più difficili.

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Le buone prestazioni della stagione 1984-1985 fanno ricredere la maggior parte degli “Stockton-scettici”. Ma la svolta decisiva avviene con il Draft del 1985. A dire il vero la svolta della sua carriera era già iniziata, ad insaputa sua e del mondo intero, durante il Trial del 1984. Sì perché nel 1985 i Jazz hanno la tredicesima scelta assoluta e la sfruttano chiamando Karl Malone. Con lui John lega molto, a tal punto che diventerà uno dei suoi migliori amici. La loro intesa è così forte che i Jazz, che fino a quel periodo non erano una squadra molto quotata, con loro in campo centrano sempre i playoff, arrivando spesso alla finale di conference.

Nel 1992 ci sono le Olimpiadi, ma prima di arrivare a Barcellona gli USA si devono qualificare. Per farlo la Nazionale statunitense deve affrontare il Campionato Americano di Pallacanestro, sarebbe più corretto chiamarlo Panamericano visto che vi partecipano Nazionali del Nord, del Centro, e del Sud America. Il torneo di fatto è una formalità poiché gli USA hanno deciso di schierare il “Dream Team“, formato dai più forti giocatori NBA. Il roster statunitense è così composto: Laettner (chiamato poi nel Draft del 1992 dai Minnesota Timberwolves, e già 2 volte campione NCAA), “the Admiral” Robinson (San Antonio Spurs), Erwing (New York Knicks), Larry Bird (Boston Celtics), Scottie Pippen (Chicago Bulls), Michael Jordan (Chicago Bulls), Clyde Drexler (Portland Trail Blazers), Karl Malone (Utah Jazz), John Stockton (Utah Jazz), Chris Mullin (Golden State Warriors), Charles Barkley (Philadelphia Seventysixers), “Magic” Johnson (che si era ritirato, ma poi richiamato a furor di popolo).

Dream_Team_1992_Basketball

John Stockton ha così il primo, vero, grande riconoscimento ai suoi meriti e al suo impegno. Inutile dire che gli Stati Uniti si qualificano per Barcellona vincendo tutte la partite, con uno scarto medio di 51,4 punti a partita. Anche le Olimpiadi filano via senza particolari problemi fino alla finale. In finale il Dream Team ritrova la Croazia di Petrovic, già affrontata, e battuta, nel girone. La musica, però, non è la stessa. Petrovic ci tiene a fare bene e gioca divinamente, portando, per qualche momento, i suoi in vantaggio, poi, però, la qualità della rosa a dispozione di Chuck Daly (allenatore all’epoca dei New Jersey Nets) viene fuori e gli USA diventano Campioni Olimpici con il risultato di 76-127. 061412_Dream_Team_575x270-panoramic_17717C’è un particolare: Stockton, che è uno che non si fa mai notare, chiama palla quando mancano pochi secondi alla sirena, i compagni lo accontentano, credendo che voglia cercare di segnare l’ulteriore allungo, ma lui non fa una piega fermandosi e palleggiando, acquisendo così il diritto di portarsi a casa il pallone della finale.

Dopo quattro anni, ed altrettanti play-off che non hanno portato l’agognata finale, è di nuovo tempo di Olimpiadi. Anche questa volta gli USA decidono di schierare il miglior roster possibile. Il roster, privo di MJ e molti giocatori ritirati, è composto da: Charles Barkley (Phoenix Suns), Grant Hill (Detroit Pistons), Penny Hardaway (Orlando Magic), “the Admiral” Robinson (San Antonio Spurs), Scottie Pippen (Chicago Bulls), Mitch Richmond (Sacramento Kings), Reggie Miller (Indiana Pacers), Karl Malone (Utah Jazz), John Stockton (Utah Jazz), Shaquille O’Neal (Orlando Magic), Gary Payton (Seattle SuperSonics), Hakeem Olajuwon (Houston Rockets). L’allenatore, come se una squadra così ne avesse bisogno, è Lenny Wilkens, ex play di Seattle, Cleveland e Portland, al tempo allenatore degli Atlanta Hawks. Anche questa volta le Olimpiadi filano via in un batter d’occhio e gli Stati Uniti si laureano nuovamente campioni Olimpici sotto gli occhi del pubblico di casa. 1996L’avversario in finale è la Jugoslavia di Divac e Danilovic, praticamente l’altra metà della squadra affrontata in finale 4 anni prima. Stockton in finale risulta uno dei migliori, seppur non fosse partito in quintetto, servendo 7 assist. Anche questa volta Stockton chiama palla a pochi secondi dal termine e anche questa volta non la gioca, ma la palleggia, in modo da potersela portare a casaJohn non è il tipo che si lascia trasportare dalle emozioni e per accorgersene basta vedere le immagini del termine delle due finali olimpiche. Sì perché in entrambe le occasioni, dopo il suono della sirena, stringe il pallone sotto il braccio, come se nulla fosse, batte qualche “cinque” a compagni ed avversari e, mentre tutti fanno festa, lui sta li a guardare come un qualsiasi tifoso che, vista eliminare la propria squadra, ha deciso di rimanere per vedere la finale.

stockton-MaloneIl tempo passa e Stockton resta, nonostante le lusinghe di squadre che puntano all’anello, ai Jazz. La stagione ’96-’97 rappresenta il culmine del miglioramento di Stockton e dei suoi compagni, quest’ultimo dovuto, oltre che al lavoro in allenamento, alla presenza proprio di Stockton. La stagione fila via abbastanza bene e, al termine della regoular season, Karl Malone viene premiato come MVP. Rispetto agli anni precedenti la candidatura alla finale dei Jazz sembra essere molto più seria, vista la grande esperienza accumulata. E così è stato. Utah, infatti, fa fuori le due squadre di Los Angeles, prima i Clippers poi i Lakers, e gli Houston Rockets, vincendo la conference e conquistando la finale playoff. La finale però non è di quelle semplici poiché ad attendere Stockton e Malone ci sono i Bulls di Jordan, Pippen e Rodman e i Jazz non riescono a tenere il passo degli avversari e perdono (4-2) la serie finale.

L’anno successivo, nonostante la sconfitta difficile da buttar giù, in finale, Stockton riesce a trascinare di nuovo i suoi in finale, battendo i Rocktes (3-2), gli Spurs (4-1) ed i Lakers (4-0). La finale è ancora contro i Bulls. Questa volta, però, i Bulls arrivano da una regoular season poco esaltante e non sembrano così imbattibili, visto anche che in quest’occasione Utah può sfruttare il vantaggio del fattore campo. I Jazz non vanno mai in seria difficoltà e, anche se la serie è di 3-2 a favore dei Bulls, la vittoria non sembra un’utopia. Ma, come nel peggiore degli incubi, 1998-chicago-bulls-vs-utah-jazz-nba-finalsle cose non vanno mai come i protagonisti vorrebbero. In gara 6, che sarebbe stata decisiva in caso di sconfitta dei Jazz, Utah sta vincendo 86-85 e, visti gli infortuni rimediati da qualche giocatore dei Bulls, Pippen in particolare, la possibilità di giocarsi tutto in gara 7 sembra essere una buona occasione. Ma succede una cosa incredibile: quando mancano 6,6 secondi dal termine Karl Malone, che avrebbe potuto benissimo proteggere palla facendo scorrere i secondi, si fa scippare il pallone da Michael Jordan, che attacca il canestro e segna. Sul Delta Center cala il silenzio, la vittoria sembrava fatta. Il tempo per recuperare ci sarebbe, mancano 5,2 secondi alla sirena, e coach Sloan chiama il time out. Sloan ha le idee ben chiare sul da farsi, conosce i suoi. Conosce soprattutto l’efficacia del gioco a 2 di Stockton e Malone, ma il tempo potrebbe non bastare e non vuole sprecare l’ultimo tiro. Al ché guarda i suoi e dice: “liberate la tripla a John”. Stockton è un gran tiratore, per certi versi è l’unico giocatore dei Jazz, e probabilmente dell’NBA, a cui affidare un tiro decisivo così importante senza farlo esaltare in caso di successo e, soprattutto, senza che si abbatta in caso di insuccesso. Lo schema funziona, anche se Stockton non ha tutta quella libertà che Sloan si sarebbe aspettato, d’altronde i Bulls sanno bene le capacità di quel computer con la maglia numero 12, lui però non può far altro che tirare, ad una prima occhiata, infatti, i suoi compagni non avevano fatto alcun movimento ed erano tutti marcati.

Il Delta Center trattiene il fiato, in un silenzio irreale, da quando il pallone si stacca dalla mano, spesso fatata, di Stockton fino a che essa termina la sua corsa, mestamente, sul ferro. Tanti si sarebbero messi le mani nei capelli, avrebbero mostrato platealmente la propria incredulità, ma non Stockton. Non John Stockon da Spokane. La sua espressione resta la stessa, come l’anno precedente ad Atlanta e 5 anni prima a Barcellona. Non mostra le sue emozioni. Anche questa volta i Jazz ci sono andati ad un passo, ma l’anello è tornato sulle dita di Jordan, Rodman e Pippen come l’anno precedente, come due anni prima. Negli anni successivi, pur partecipando sempre ai playoff, i Jazz non riescono a ripetersi non andando oltre al secondo turno. Al termine della stagione 2002-2003 Stockton decide di lasciare il parquet. Ma, come nel suo stile, rinuncia alla classica conferenza stampa, preferendo un semplice comunicato stampa degli Utah Jazz.

john-stockton-statueDi lui, dopo il ritiro, restano i numeri. Numeri pazzeschi, al di là di ogni immaginazione. Detiene, infatti, ben 4 record assoluti NBA: record di assist realizzati in una stagione (1164 nella stagione 1990-1991), record di assist realizzati in carriera (15806), record di palle rubate in carriera (3265), miglior media assist in una stagione (14,54 nel 1989-1990), maggior numero di assist in una partita (24 contro i Lakers il 17 maggio 1988, record condiviso con Magic Johnson) ed ha la seconda miglior media assist in carriera (10,51, secondo solo a Magi Johnson che di assist ne ha 11,19). Soprattutto il record di maggior numero di assist in carriera è di quelli che fanno venire i brividi. E’ un numero spaventoso perché, mediamente, un giocatore che mira a quel record arriva a 35/36 anni e pensa: “forse se gioco altri 5/6 anni ad altissimi livelli ce la faccio ad avvicinarlo”. Detiene, inoltre, il record per la permanenza più lunga, e continuativa, in un’unica franchigia NBA, avendo giocato, sempre, con i Jazz dalla stagione 1984-1985 alla stagione 2002-2003.

Dopo aver chiuso con il basket giocato, per un brevissimo periodo, ha allenato il Paok Salonicco, ma decise di interrompere la sua avventura da allenatore per ritirarsi a vita privata. Nel 2009 arriva, l’inevitabile, inserimento nella Naismith Memorial Hall of Fame insieme ad altri due membri del Dream Team “originale”: Michael Jordan e “the Admiral” Robinson. stocktonspeechLa cerimonia fu una cosa abbastanza insolita perché Stockton si trovò, imbarazzatissimo, a tenere un discorso davanti alla sala gremita, mentre Jordan praticamente trasformò il suo discorso in una specie di show nel quale fece intendere di voler tornare sul parquet NBA. A fine 2013 è uscita la sua autobiografia tra lo stupore generale. Nessuno si sarebbe aspettato che quel ragazzo, così chiuso da mandare Malone ai microfoni per evitare di parlare, avrebbe mai pubblicato un’autobiografia. Dopo il suo ritiro all’NBA un personaggio come lui, che non parlava mai, è un po’ mancato. Un po’ per le caratteristiche tecniche, un po’ per il personaggio in sé.

Uno così non si era mai visto e, probabilmente, non si vedrà mai. La sua forza non era fare assist, e dire così di uno che ha il record di assist in carriera è quasi una pazzia, e non era neanche rubare palloni, ma la caratteristica che lo ha reso unico è stata quella di riuscire a far migliorare, in maniera quasi mostruosa, i suoi compagni. John Stockton da Spokane, Washington, quando fu chiamato al draft a Salt Lake City fu fischiato, ma è bastato poco tempo per trasformare quei fischi in scroscianti applausi. Sono bastati umiltà, silenzioso carisma ed intelligenza. Di gente così non ne fabbricano più.

Per Dunk NBA
Shedly Chebbi

Sorprese nella notte NBA, le regine dell’Ovest vengono spazzate via dalle cenerentole: Portland e OKC battute da Kings e Jazz

Oklahoma City Thunder @Utah Jazz 101-112

Oklahoma City (27-8) si arrende al baby talento dei Jazz (12-25), Gordon Hayward, che con 37 punti in 37 minuti, 11-13 al tiro da due, 11 rimbalzi e 7 assist spazza via l’onda Thunder, smorzata dall’assenza di Serge Ibaka, fuori per influenza. Sicuramente anche per questo motivo il reparto difensivo dei Thunder ha resistito meno del solito contro Utah. Kevin Durant, a quota 48 punti per la seconda volta in tre partite, non è bastato a colmare il distacco che i Jazz avevano creato nel secondo e terzo quarto: OKC si porta a -5 sul 94-99 a 4 minuti e 50 secondi dal termine, ma poi i Jazz assestano il colpo finale con una tripla tremenda di Hayward che apre la strada ai 10 punti il 4 minuti messi a segno dalla Shooting Guard ventitreenne di Indianapolis. Oklahoma City mantiene la testa della conference, nonostante questa sia la terza sconfitta nelle ultime cinque gare. Utah, ultima di Conference, continua a mettere a segno risultati altalenanti, ma sempre con prestazioni degne di nota.

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Portland Trail Blazers @Sacramento Kings 119-123

L’altra schiacciasassi della Western Conference, Portland (26-9), viene bloccata sul parquet di Sacramento (11-22) dal duo Cousins-Gay, nonostante la tremenda rimonta firmata Damian Lillard messa a segno in un ultimo quarto dal parziale impressionante, 46-43 per Portland. La PG dei Blazers fa ben 26 punti nel quarto quarto, 16 dei quali negli ultimi 2 minuti, riportando il parziale a 119-121 a 16 secondi dalla sirena. Portland ci crede, ma Batum regala due liberi a Isaiah Thomas, che non sbaglia, e porta il risultato sul 119-123. Lillard tenta la tripla a 5 secondi dallo scadere, ma la palla non entra. Sacramento, con due possessi di vantaggio, trova anche un fallo su Williams, che sbaglia i due liberi a disposizione ma contribuisce a congelare il risultato. 119-123 il finale. Gara dai continui rovesciamenti di fronte, ma ben costruita dai Kings, che attaccano con un 47.1% totale di precisione al tiro ed un ottimo 46.7% al tiro da fuori. Portland, bloccata dai 35 punti e 13 rimbalzi di DeMarcus Cousins, lascia per strada una vittoria già preannunciata, ma continua a regalare prestazioni solidissime, con un Lillard spaziale che mette dentro 7 triple su 13.

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Per Dunk NBA,

V.S.

NBA preview: Pacers alla ricerca della vendetta con i Raptors, Nola in casa James, Warriors per battere il loro record, chiude la notte Portland-Sacramento

Le gare della notte del 7 Gennaio in Nba saranno condizionate dalla trade che ha visto protagoniste Chicago e Cleveland con Bynum e tre scelte future in rotta verso i Bulls e Luol Deng verso Cleveland. Per Bynum però si prevede un taglio da parte dell’ex franchigia di MJ per motivi salariali. Contro Phoenix quindi, sarà tutto da vedere se ci sarà il debutto per l’ex stella dei Lakers.

Passando alle gare della notte, sicuramente la sfida che suscita più interesse è Toronto-Indiana. I Pacers, prima forza Nba al momento, cercano la rivincita dopo il colpaccio dei Raptors, della settimana scorsa, squadra che dopo la cessione di Rudy Gay ai Kings, non sembra aver perso smalto per una corsa ai play-off che a Est, sembra che basti veramente poco per arrivare alla post-season. Miami ospita i Pelicans, formazione emergente ma che in trasferta non sembra trovare il giusto ritmo con Lebron che vuole rispondere alla stagione da numero 1 di Kevin Durant.

paul george

Passando ad Ovest, la sfida più interessante sarà fra gli Spurs di Marco Belinelli e i Memphis Grizzlies: questi ultimi in casa sono una delle franchigie peggiori della lega, e se trovassero una buona striscia di vittorie, potrebbero rientrare in corsa per la lotta play-off . D’altro canto, Parker e company, non sembrano trovare la via della fine, capendo che forse questa stagione, potrebbe essere veramente l’ultima per l’anello.

I Thunder saranno invece ospiti dei Jazz, formazione che punta al tanking quest’anno ma che nelle ultime 10 ha un bilancio in pari. Lakers e Mavericks è sfida fra nobili decadute, anche se WunderDirk, sta trascinando la formazione del milionario Cuban, all’ottavo posto della Western Conference, mentre l’altra stella, Kobe è fermo ai box. Per chiudere, derby italiano in quel di New York Datome-Bargnani: con Gigi che continua a vedere pochissimo il campo, mentre il Mago non riesce ad essere decisivo. Nostalgia d’Italia?

L.F.

Clippers vincono sul finale contro Utah (90-98), T’wolves con superLove contro i poveri Bucks (117-95), Suns sempre in crescita sui 76ers (101-115)

Utah Jazz @ Los Angeles Clippers 90-98
I 40 punti di Blake Griffin sono ossigeno puro per i Clippers (21-11), che evitano così la terza sconfitta consecutiva. I Jazz (9-24) hanno messo paura fino all’ultimo a CP3 e compagni, cercando di raggiungere la terza vittoria nelle ultime 4 partite: ci mette del suo Enes Kanter, in double double con 17 punti e 12 rimbalzi, con l’aiuto di Trey Burke (12 punti, 6 assist), autore dei due liberi che riportano Utah in parità a 2:32 dal termine (90-90). Da lì in poi ci pensano Griffin e Chris Paul a salvare il parquet dello STAPLES Center: schiacciata del #32 di LAC, assist di CP3 per Crawford (tripla), due liberi di Paul e uno di Griffin per arrivare al definitivo 90-98. Paul sfiora la tripla doppia con 21 punti, 10 rimbalzi e 9 assist.

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Minnesota Timberwolves @ Milwaukee Bucks 117-95
Ordinaria amministrazione per i T’wolves contro questi evanescenti Bucks, ultimi in classifica, con un record di 6 vittorie e 24 sconfitte che si commenta da solo. Si salvano tra i Bucks solo Khris Middleton, autore di una prestazione dignitosa con 23 punti (7/13 da due, 3/7 da tre) e 9 rimbalzi, e O.J. Mayo, ancora una volta utilissimo dalla panchina (19 punti, 7/8 da due). Minnesota non deve far altro che affidarsi all’ennesima prestazione di SuperLove, sopra quota 30 punti e 15 rimbalzi per la quinta gara consecutiva. Kevin Martin mette a verbale 20 punti (4/7 da tre), Nikola Pekovic va in doppia doppia (19 punti, 11 rimbalzi) e Love registra 33 punti (7/11 da due, 4/6 da tre), 15 rimbalzi e 6 assist.

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Philadelphia 76ers @ Phoenix Suns 101-115
Partita piuttosto equilibrata fino a metà gara, con i primi due quarti divisi equamente tra 76ers e Suns, Young e Carter-Willims cercano di mettersi la squadra ospite sulle spalle, con prestazioni da sogno, ma al rientro dall’intervallo lungo i Suns trovano l’allungo che li porta a tenere Philadelphia a distanza di una decina di punti fino alla fine del terzo quarto (80-88) e poi per quasi tutta la durata del quarto: nel secondo tempo, infatti, i 14 punti di Bledsoe e gli 8 di Plumlee, ma soprattutto agli 11 punti negli ultimi 12 minuti di Marcus Morris (tre triple) mettono fine ai giochi. Per Philadelphia si registrano i 30 punti e 10 rimbalzi di Thaddeus Young, i 27 punti e 6 rimbalzi di Carter-Williams, e i 22 punti di Tony Wroten. Ma tutto ciò non basta. Per i Suns c’è un Plumlee sempre in crescita, in doppia doppia con 22 punti e 13 assist, 21 e 20 punti per Dragic e Bledsoe, 18 punti per Marcus Morris.

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